Ecco perché «morire per Kabul»

Meno male che il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha evitato di dire che i cinquanta soldati italiani morti in Afghanistan dall'inizio delle operazione fino ad oggi sono caduti per la pace. Ormai nessuno crede più ad un luogo comune talmente falso e stantio da risultare addirittura fastidioso. Ed il fatto che il responsabile della Farnesina in una intervista al Corriere della Sera abbia evitato di ripetere questa formuletta rituale, che serve solo a nascondere sotto una coltre di ipocrisia la verità, è un importante passo in avanti verso un rapporto più trasparente e sincero tra pubbliche autorità e cittadini. Ma Terzi non ha compiuto solo questo di passo in avanti. Ha anche rilevato che quei soldati caduti in servizio «hanno lo stesso valore degli italiani che persero la vita nella lotta al terrorismo». E la sua affermazione ha prodotto una interpretazione del suo pensiero che costituisce un secondo e più importante passo in avanti verso la definizione del vero significato della partecipazione italiana alla missione miltare in Afghanistan. Da adesso in poi si potrà rispondere più facilmente alle domande sul "perché restare ad Herat" e sul "perché morire per Kabul". 

Quelle domande che non sono poste solo da una opinione pubblica distratta che scopre l'esistenza di un contingente italiano nel lontano paese dei monti inaccessibili e delle tribù irriducibili solo quando muore uno dei partecipante della missione. Ma costituiscono la reazione immediata, spontanea e legittima dei figli, delle mogli, dei genitori di chi perde la vita nei deserti afghani.

Grazie a Terzi ora possiamo evitare di ripetere la sciocchezza poco consolatoria che chi muore per Kabul lo fa per la pace universale e possiamo tentare di dare una giustificazione a chi rischia la pelle ed ai chi a cuore la loro sorte affermando che i morti sono vittime del terrorismo. E, per estensione logica, che in Afghanistan ci siamo andati e ci tocca di restare per una ragione molto più precisa e concreta di quella nascosta dalla formula della "missione di pace". Ci siamo e ci dobbiamo restare per combattere il terrorismo.

La possibilità di evitare le formule ipocrite e riconoscere serenamente la realtà ha ricadute concrete. Che non sono solo quelle relative alle motivazioni psicologiche di chi deve combattere e agli appigli consolatori per chi ha la sventura di dover piangere.Ma anche quelle di poter ufficialmente evitare tutte quelle accortezze materiali che negli anni passati servivano a tentare di mimetizzare agli occhi di un paese educato al ripudio dell'uso delle armi che la lotta al terrorismo è una guerra. Anomala quanto si vuole, ma sempre guerra. La strage di Nassirija si sarebbe evitata se tanta chiarezza ci fosse stata in passato! Ma bastano le dichiarazioni di Terzi per completare il processo di smantellamento dei falsi luoghi comuni e delle fastidiose ipocrisie per esaurire il processo di trasparenza e di verità sul ruolo dell'Italia nelle missioni internazionali? Niente affatto. In realtà, pur apprezzando il comportamento del responsabile della Farnesina, siamo solo all'inizio di un percorso che ha come punto d'arrivo una  consapevolezza ed una responsabilità, non solo di un ministro o di un governo ma di un intero paese. Si può combattere per la pace, si deve combattere contro il terrorismo. Ma lo si deve fare sempre e comunque in nome dell'interesse nazionale.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:10