Più che riforme, restaurazione

Una riforma che restaura. Sembra un paradosso, una contraddizione in termini. Ma è l'unica definizione che si può dare dell'accordo sulla riforma elettorale raggiunto tra i leader del Pdl, del Pd e dell'Udc nel corso del vertice di maggioranza svoltosi a Montecitorio martedì scorso.

Se all'intesa generale seguiranno accordi sui particolari e se l'iter parlamentare della nuova legge elettorale riuscirà a superare tutti gli ostacoli che in Parlamento verranno posti dagli oppositori, le prossime elezioni politiche segneranno il ritorno del sistema proporzionale nel nostro paese. Si tratterà di un proporzionale corretto da un qualche premio di maggioranza per il partito con il maggior numero di consensi (ma quale premio?), dall'introduzione di una soglia di sbarramento tesa ad impedire la proliferazione dei mini-partiti (ma quale soglia di sbarramento?), dall'indicazione nella scheda del nome del premier che però potrà essere smentita da un qualche accordo tra i partiti all'indomani del voto e dalla possibilità, ancora non definita, di un diritto di tribuna per le forze rimaste fuori dal Parlamento a causa dello sbarramento.

Le incognite sulla riforma elettorale sono ancora tante. Di certo c'è, però, che il progetto prevede la fine del bipolarismo ed il ritorno del proporzionale. E che alla base di questa decisione c'è la convinzione che non sia possibile governare il paese nel corso di una crisi economica grave come quella in corso con un sistema fondato sull'alternanza tra due grandi schieramenti politici.

Qualcuno rileverà che questa convinzione non è condivisa in molti paesi del mondo. Negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna e in Spagna la crisi non ha provocato la crisi dei sistemi bipolari dei rispettivi paesi. In Italia, invece, la necessità di fronteggiare l'emergenza sembra aver spinto i rappresentanti delle maggiori forze politiche a convincersi che l'unica formula adatta per governare il nostro paese non sia quella dell'alternanza tra due schieramenti contrapposti, ma quella del compromesso e della consociazione tra i partiti maggiori. Che il caso italiano costituisca una anomalia è fuori di dubbio. Ma non si tratta di una anomalia sconosciuta. Perché la Costituzione è nata dal patto consociativo tra i due maggiori partiti di allora, Democrazia cristiana e Partito comunista italiano.

E da allora per molti le vere anomalie della storia dell'Italia repubblicana sono state tutte le esperienze politiche, da De Gasperi fino a Berlusconi, che non hanno rispettato il patto di quello che un tempo veniva definito "l'arco costituzionale".

La riforma, allora, non innova ma restaura. Ripropone una anomalia che aveva un senso quando la mancata consociazione tra forze naturalmente antagoniste avrebbe provocato la guerra civile e che continua ad avere un senso per chi considera che chiunque governi l'Italia in contrapposizione o in alternativa alla sinistra non sia legittimato a farlo. Come tutte le restaurazioni, però, anche quella decisa dall'A-B-C sembra non tenere conto che nel frattempo le condizioni storiche e politiche del passato sono cambiate. In particolare, con la nascita del governo tecnico avvenuta grazie al forcipe del Presidente della Repubblica, è cambiato il quadro istituzionale. Di fatto la Repubblica è diventata presidenziale. Con la conseguenza che, dopo la riforma, avremo un assetto politico proporzionale in un quadro istituzionale materiale dominato da un Capo dello Stato in possesso di super-poteri non formali ma reali.

Qualcuno ha riflettuto sul fatto che, con il ritorno al proporzionalismo consociativo non accompagnato da una adeguata riforma del ruolo del Capo dello Stato, il successore di Napolitano potrà tranquillamente diventare un "princeps legibus solutus"?

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:11