Dal tetto ai canoni di Canberra alle riforme di Melbourne e Perth, la politica ripete vecchi errori: controlli che riducono la libertà contrattuale e aggravano la scarsità abitativa.
Il dibattito sugli affitti in Australia ha assunto un carattere emblematico. In risposta a un mercato in forte squilibrio, caratterizzato da canoni cresciuti e disponibilità ai minimi, i governi locali hanno scelto la strada dell’intervento diretto. La promessa, nel classico stile delle iniziative dirigiste adottate anche altrove, è quella di proteggere gli inquilini. Nondimeno, l’esperienza dimostra che siffatto approccio finisce sempre per irrigidire i contratti e scoraggiare gli investimenti.
A tal proposito, il primo banco di prova è l’Australian Capital Territory, il distretto federale che comprende Canberra. Qui è stata introdotta una regola che limita l’aumento dei canoni alla variazione del sottoindice del Consumer Price Index relativo agli affitti (CPI rents), a cui può aggiungersi un ulteriore dieci per cento.
In pratica, se il costo medio degli affitti rilevato dall’ufficio statistico cresce del 5 per cento, l’aumento massimo consentito sarà del 5,5 per cento. Per superare questa soglia occorre rivolgersi a un tribunale. È la cosiddetta fairness formula, un meccanismo che riecheggia i vecchi controlli di prezzo e che rappresenta un precedente pericoloso.
Sulla stessa scia si muove il Victoria, lo Stato di cui Melbourne è capitale. Nel marzo 2025 il Parlamento ha approvato il Consumer and Planning Legislation Amendment (Housing Statement Reform) Bill 2024, un pacchetto di riforme entrato in vigore dal novembre 2025. Il provvedimento ha abolito gli sfratti senza motivo, consentendo al proprietario di riottenere l’alloggio solo per ragioni tassative come la morosità o la vendita dell’immobile; ha vietato le gare al rialzo tra aspiranti inquilini; ha proibito le commissioni aggiuntive applicate da agenzie e piattaforme digitali; e ha innalzato gli standard minimi degli immobili, imponendo costi più elevati a chi li mette sul mercato. Gli effetti si sono manifestati già prima dell’entrata in vigore completa della riforma: secondo i dati della Real Estate Institute of Victoria, tra settembre 2023 e settembre 2024 i bond attivi sono diminuiti di circa 24.000 unità, segnale di una progressiva fuga degli investitori.
Un percorso simile è stato intrapreso anche dal Western Australia, che dal 2024 ha introdotto un limite strutturale di un solo aumento del canone all’anno e ha vietato il cosiddetto rent bidding, ossia la pratica di spingere più candidati inquilini a rilanciare oltre il prezzo richiesto dal proprietario. La riforma ha inoltre ampliato i diritti degli affittuari, rendendo più semplice tenere animali domestici nell’alloggio e consentendo piccole modifiche interne senza procedure complesse.
Rimane formalmente aperto il dibattito sull’abolizione totale degli sfratti senza giusta causa, anche se tale discussione si colloca ormai all’interno di un quadro normativo già fortemente restrittivo per i locatori, che riduce sensibilmente la discrezionalità contrattuale.
Questa sequenza di riforme sembra nuova, ma in realtà ripete esperienze già vissute in Australia. Durante la Prima guerra mondiale Sydney ha conosciuto proteste e scioperi degli inquilini, cui il governo ha risposto congelando i canoni; una misura presentata come temporanea che è stata poi prorogata più volte, scoraggiando la costruzione di nuove abitazioni. Lo stesso schema si è ripetuto nel dopoguerra: dopo la Seconda guerra mondiale sono stati introdotti in tutte le principali città i cosiddetti Rent Control Acts, leggi che hanno fissato i canoni a livelli artificialmente bassi. Il risultato è stato la decadenza del patrimonio edilizio, il diffondersi di mercati neri e la progressiva fuga dei capitali verso altri settori. Solo negli anni Settanta, con la liberalizzazione, il settore è tornato a respirare: gli affitti sono cresciuti, ma insieme a essi sono migliorate la qualità e la disponibilità degli alloggi, dimostrando che la via del controllo non era sostenibile.
Nonostante queste esperienze negative, l’Australian Capital Territory, laboratorio politico per eccellenza, ha consolidato nel tempo una tradizione di intervento culminata nell’attuale fairness formula. Il meccanismo, tuttora pienamente operativo, consente variazioni dei canoni soltanto entro il limite fissato dall’indice dei prezzi al consumo per gli affitti, maggiorato di un ulteriore dieci per cento, con la possibilità di superarlo solo previa autorizzazione di un tribunale. Presentata come strumento di equilibrio e di tutela, la formula è ormai indicata nel dibattito politico come modello esportabile, confermando come un controllo nato come eccezione tenda fisiologicamente a trasformarsi in sistema.
I governi e i politici continuano a sostenere che senza vincoli i proprietari avrebbero mano libera. Ma la verità è che il mercato funziona come disciplina naturale: la concorrenza fra locatori e la possibilità di scelta per gli inquilini sono i veri argini agli abusi. Se si blocca il prezzo, si blocca anche l’ingresso di nuovi investitori e si condanna l’offerta a rimanere insufficiente.
La lezione è chiara: i controlli non rendono le case più accessibili, le rendono più rare. È la storia a dimostrarlo, e l’attualità australiana a confermarlo. La libertà contrattuale non è un ostacolo, è invece la condizione perché domanda e offerta si incontrino in modo spontaneo. Intervenire significa aggravare la scarsità e trasformare un problema contingente in una crisi permanente.
L’Australia, che pure ha conosciuto i limiti del dirigismo nel passato, sembra pronta a ripercorrere la stessa strada. Tuttavia, la vera equità non nasce dall’imposizione burocratica: nasce da un mercato aperto, da regole semplici, dalla fiducia nella proprietà privata. Solo così si possono attrarre capitali, ampliare l’offerta e rendere la casa accessibile, senza sacrificare la libertà.
Aggiornato il 23 dicembre 2025 alle ore 09:57
