Quando lo Stato controlla la moneta, non controlla l’economia: la distrugge.
Per comprendere ciò che sta accadendo oggi a Cuba occorre partire da un fatto cruciale: il governo dell’Avana ha deciso di legalizzare l’uso del dollaro e di ammettere ufficialmente la dollarizzazione parziale dell’economia. Una svolta storica per un Paese che, fino a pochi anni fa, puniva persino il semplice possesso di valuta straniera. Ma al di là della notizia in sé, il punto decisivo è ciò che essa rivela: il fallimento del monopolio statale della moneta e la forza irresistibile della concorrenza monetaria. L’isola caraibica diventa così il laboratorio vivente di un principio universale: quando la moneta è imposta dallo Stato, prima o poi smette di funzionare; quando invece è scelta dalle persone, si afferma come strumento affidabile. Da qui muove la nostra riflessione.
Detta dollarizzazione parziale di Cuba non è un gesto tecnico, né un semplice aggiustamento. È invece la confessione, tardiva e inevitabile, che il monopolio politico della moneta è incompatibile con la prosperità. Per anni si è preteso che il peso cubano avesse valore perché lo stabiliva il potere: un’illusione tipica di ogni sistema che scambia la legge economica per un atto di autorità. Ma nessuna società può essere amministrata contro la logica degli scambi volontari.
La verità è semplice: la moneta non nasce dallo Stato, ma dalle persone. Nessun funzionario può decidere cosa la gente accetterà come mezzo di pagamento; nessun decreto può costringere miliardi di interazioni quotidiane a rispettare un’unità di conto che non conserva valore. Le autorità dell’isola hanno difeso per decenni un sistema nel quale la moneta ufficiale non rifletteva la scarsità, né la produttività e neppure il risparmio: era sostenuta solo dalla coercizione. Il risultato è stato il collasso.
Quando una moneta nazionale fallisce, a salvarsi non è chi detiene il potere, bensì chi può scegliere un’alternativa. Ed è qui che la risposta spontanea della popolazione ‒ rifugiarsi nel dollaro ‒ ha aperto una breccia nel muro del monopolio. Il dollaro non entra perché è “americano”, lo fa perché è scelto liberamente. La sua forza non deriva da un decreto, ha origine nella fiducia: un bene che nessun governo può fabbricare a suo piacimento.
Da questa prospettiva, il punto centrale non è se Cuba adotti o meno il dollaro, quanto il fatto che continua a esistere un’unica moneta imposta. L’esperienza dimostra che quando gli individui possono scegliere tra più monete, competitivamente, nessuna autorità può inflazionare, svalutare o manipolare senza pagarne il prezzo. La concorrenza monetaria costringe ogni emittente ‒ pubblico o privato ‒ a comportarsi con disciplina. È l’unico antidoto reale contro l’arbitrio.
La dollarizzazione parziale è dunque un primo passo, tuttavia non è la soluzione. Una società che sostituisce il monopolio di una moneta fallita con quello di un’altra rimane prigioniera dello stesso errore: credere che la stabilità dipenda da un’autorità centrale anziché dal processo spontaneo delle scelte individuali. Resta il nodo fondamentale: finché la moneta sarà un’esclusiva statale, resterà uno strumento politico e, come tale, vulnerabile a manipolazioni, crisi cicliche, svalutazioni e impoverimento silenzioso.
L’episodio cubano è l’ennesima conferma di un principio che vale ovunque: la libertà monetaria non è un lusso teorico, è piuttosto il fondamento minimo della prosperità. Una moneta scelta, e non imposta, è l’unica in grado di preservare risparmio, coordinare decisioni, rendere prevedibili i rapporti economici e limitare il potere politico. È da qui che nasce l’ordine, non dalle banche centrali.
Se Cuba avesse consentito per tempo un regime di concorrenza monetaria ‒ lasciando che più strumenti di pagamento si contendessero la fiducia dei cittadini ‒ la crisi non avrebbe potuto assumere proporzioni così distruttive. Oggi, il ritorno del dollaro è solo la superficie del problema. Il vero tema è che la moneta non deve appartenere a nessuno, e tantomeno allo Stato.
La storia non cambia: quando si restituisce agli individui il diritto di scegliere cosa usare per misurare e trasferire valore, la società prospera. Quando si toglie loro questa facoltà, il risultato è sempre lo stesso: scarsità, inflazione, stagnazione, corsa alla sopravvivenza.
La soluzione non è cambiare moneta, ma cambiare paradigma. E riconoscere, finalmente, che la libertà monetaria non è un dettaglio: è la condizione per impedire che la politica continui a erodere ricchezza e futuro.
Aggiornato il 18 dicembre 2025 alle ore 10:33
