Nel corso della storia economica moderna il capitalismo è stato identificato prima e soprattutto come un sistema di produzione e scambio di beni e servizi attraverso mercati liberamente competitivi, caratterizzato da proprietà privata dei mezzi di produzione, accumulazione del capitale e valorizzazione attraverso la produttività collettiva del lavoro. Questo schema di base, seppur variamente interpretato e criticato (Karl Marx, John Maynard Keynes, Karl Polanyi, Joseph Schumpeter e molti altri), ha sempre ruotato attorno all’idea che il valore economico derivi dalla capacità di produrre beni o servizi replicabili, scambiabili e migliorabili produttivamente. La teoria classica del valore e poi del plusvalore (nel caso marxiano) vedeva il profitto come il frutto di sfruttamento della variabile lavoro all’interno del processo produttivo, e l’intervento statale sovente come una deviazione, un’aggiunta e/o un correttivo necessario solo in condizioni di fallimento del mercato o crisi sistemiche.
Nel dibattito pubblico recente, invece, si assiste all’emergere di un fenomeno di diversa natura: molte analisi definiscono alcune recenti politiche economiche e strutturali non solo in termini di regolazione o intervento, ma come una mutazione più profonda del capitalismo stesso. Nel caso delle politiche dell’amministrazione di Donald Trump – e più in generale nell’economia statunitense recente – alcuni commentatori e think tank hanno usato l’espressione capitalismo di Stato per descrivere decisioni che mostrano un ruolo governativo estremamente attivo nel dirigere e orientare settori strategici dell’economia, non solo con politiche di regolazione o protezionismo, ma con forme di interventi diretti, imposizioni di condizioni e parentele strette tra Stato e imprese private. Questo modo di fare politica economica appare, a giudizio di alcuni osservatori, lontano dal neoliberismo puro che idealmente avrebbe voluto minimizzare il ruolo dello Stato, e più vicino a un interventismo selettivo che ricorda, in forma attenuata e differenziata, aspetti del cosiddetto capitalismo di Stato dove lo Stato non è mero regolatore, ma attore diretto nel plasmare l’economia. È certo che tale descrizione non è unanimemente condivisa, ma serve ai nostri fini per evidenziare come le categorie tradizionali dell’economia politica devono essere ampliate quando si analizzano fenomeni emergenti e complessi come quelli della nostra epoca.
Parallelamente, nelle scienze sociali è emersa un’altra categoria concettuale che descrive un aspetto importante dell’economia contemporanea: il capitalismo della sorveglianza (surveillance capitalism), concetto elaborato, invero, dalla studiosa Shoshana Zuboff per definire un “nuovo ordine economico” in cui l’esperienza umana stessa viene considerata materia prima gratuita da trasformare in dati comportamentali poi utilizzabili per prevedere e influenzare scelte e comportamenti di individui e gruppi. Zuboff sostiene che nella nostra epoca i grandi operatori delle piattaforme digitali (come Google, Facebook/Meta, Amazon e altri) non si limitano più a fornire servizi o prodotti, ma appropriano e monetizzano dati comportamentali su scala massiva senza pieno consenso consapevole da parte degli utenti, creando ciò che chiama surplus comportamentale, cioè informazioni generate dagli utenti che vanno al di là del semplice utilizzo del servizio e che vengono trasformate in prodotti predittivi per generare profitto. Questo processo, secondo Zuboff, costituisce una forma di accumulazione capitalistica che non si basa sulla produzione di beni materiali, ma sull’estrazione e commercio di dati relativi ai comportamenti futuri delle persone. Noi stessi in diverse occasioni abbiamo avuto modo di rilevare come il processo capitalistico moderno prevede come parte integrante l’appropriazione dei dati degli utenti che liberamente accedono alle piattaforme.
Il capitalismo della sorveglianza, in questa interpretazione, non è semplicemente un’aggiunta tecnologica al capitalismo dell’informazione, ma una mutazione nella logica di accumulazione: laddove il capitalismo industriale sfruttava la natura e il lavoro umano, la forma contemporanea “sfrutta e controlla la natura umana” stessa come materia prima. La trasformazione dei dati in valore non avviene solo attraverso la raccolta e la vendita di informazioni personalizzate, ma mediante la creazione di mercati predittivi dei comportamenti futuri, dove i dati vengono utilizzati per trarre profitti influenzando scelte di consumo, preferenze politiche e, più in generale, comportamenti umani futuri. Questa dinamica ha profonde implicazioni teoriche perché mette in discussione alcune concezioni tradizionali del capitalismo. In teorie economiche classiche il mercato opera tramite la legge della domanda e dell’offerta e la formazione dei prezzi in equilibrio, mentre nel capitalismo della sorveglianza lo scambio non avviene tra equivalenti: gli utenti non vendono consapevolmente i loro dati né ne comprendono pienamente l’uso economico, creando una differenza radicale rispetto alle transazioni di mercato tradizionali. Zuboff sottolinea, inoltre, come tale sistema opera con asimmetrie di conoscenza e potere così grandi da porre rischi alla libertà individuale e alla democrazia stessa, perché le tecnologie comportamentali possono essere usate non solo per anticipare, ma per modificare o dirigere i comportamenti di massa senza trasparenza e controllo pubblico.
Questa trasformazione del capitalismo contemporaneo verso l’estrazione di dati e comportamenti umani non può non essere collegata alle forme di intervento statale e alle strategie economiche osservate anche in tempi recenti. Se il capitalismo industriale classico concentrava la sua attenzione sulla produzione di merci e sulla competizione mercantile, e la successiva fase neoliberale enfatizzava la deregolamentazione e la globalizzazione dei mercati, il capitalismo contemporaneo sembra incorporare due dinamiche complementari: da un lato l’emergere di attori economici privati che accumulano potere attraverso dati e infrastrutture digitali (con caratteristiche di scala, centralizzazione e influenza senza precedenti), dall’altro Stati che non si limitano più a regolare, ma entrano in relazioni complesse con questi attori, proteggendo, incentivando e integrando le loro funzioni nella strategia nazionale.
Le politiche di Trump – con misure protezionistiche, interventi diretti in settori strategici, imposizioni di condizioni e scelte di politica industriale volte anche a sostenere specifiche imprese o settori – possono dunque essere viste non tanto come un ritorno al capitalismo di Stato tradizionale, ma come una manifestazione di una più ampia tendenza verso un capitalismo in cui Stato e grandi capitali tecnologici si intrecciano strettamente, entrambi beneficiando dell’estrazione di valore dalle reti digitali, dai dati e dai comportamenti delle persone. È importante precisare che tale mutazione non si limita ai confini degli Stati Uniti o all’era Trump, ma riflette una trasformazione globale delle dinamiche di potere economico. La logica di accumulazione basata sui dati spinge le imprese tecnologiche verso posizioni di dominio e monopolio, con implicazioni per la concorrenza, per la distribuzione del reddito e della ricchezza, e per la stessa struttura istituzionale degli Stati. Il sistema di sorveglianza dei dati può, in alcune condizioni, essere utilizzato anche dagli Stati stessi per finalità di sicurezza o controllo sociale, creando ulteriori connessioni tra potere pubblico e privato. Inoltre, la centralità di queste piattaforme digitali nel coordinamento delle attività economiche, sociali e persino politiche solleva interrogativi sulla sovranità dei cittadini, la trasparenza delle istituzioni e la responsabilità dei detentori di dati nella gestione delle informazioni personali e comportamentali.
In termini teorici, questi sviluppi richiedono un’estensione delle categorie analitiche tradizionali dell’economia politica. Non basta più distinguere tra mercato e Stato o tra capitalismo industriale e capitalismo finanziario: bisogna considerare come la produzione di valore capitalista si sposti verso l’appropriazione di capacità previsionali e di controllo dei comportamenti umani, e come questa capacità trasformi in modo sistemico le relazioni tra individui, imprese e istituzioni pubbliche. Il capitalismo della sorveglianza, visto attraverso il prisma delle teorie critiche contemporanee, rappresenta quindi non solo un fenomeno tecnologico, ma un cambiamento profondo nello schema di accumulazione del capitale, con implicazioni per la struttura delle disuguaglianze, per la governance democratica e per il ruolo stesso dello Stato nell’economia.
In conclusione, la riflessione critica sulle forme emergenti di capitalismo – incluse quelle descritte da Zuboff come capitalizzazione dell’esperienza umana – indica, da nostro punto di vista, che stiamo affrontando una trasformazione sistemica del capitalismo più che una semplice variazione di stile o di politica economica. Le politiche di Trump, discusse nel contesto del capitalismo di Stato, devono essere viste quindi alla luce di questa trasformazione: non come un episodio isolato, ma come parte di una tendenza più ampia in cui il valore economico si genera non tanto nella produzione di beni materiali quanto nell’estrazione, previsione e utilizzo dei dati comportamentali, con la complicità di uno Stato che assume ruoli sempre più attivi nella gestione di queste dinamiche. Solo comprendendo questa trasformazione nella sua totalità possiamo formulare risposte teoriche, regolamentari e politiche adeguate alla realtà contemporanea.
(*) Economista
Aggiornato il 16 dicembre 2025 alle ore 15:04
