La crociata contro gli immobili non dichiarati si presenta come moralizzazione, ma nasce da un sistema che rende impraticabile la legalità e punisce l’adattamento come colpa.
L’operazione annunciata dal Parlamento contro le cosiddette “case fantasma” viene presentata come un intervento di legalità, efficienza e modernizzazione fiscale. Si promette di utilizzare tecnologie di telerilevamento, fotointerpretazione digitale e verifiche amministrative per individuare milioni di immobili non dichiarati, costringendo i proprietari ad aggiornare le mappe catastali o subire l’attribuzione d’ufficio di rendita presunta, sanzioni e un potenziale contenzioso urbanistico-edilizio affidato ai Comuni. È un’azione che, a livello comunicativo, si fonda sull’idea che esista un vasto esercito di evasori, furbi e predatori che nascondono patrimonio immobiliare e che lo Stato, finalmente, abbia trovato gli strumenti per stanarli. Il ricorso al Pnrr è la giustificazione politica, la scenografia tecnologica è la copertura tecnica, la retorica moralistica è il motore emotivo.
Tutto questo presuppone che l’irregolarità sia una scelta deliberata di chi vuole frodare il fisco. Invero, la realtà, ben più scomoda, è che l’irregolarità è spesso l’esito obbligato di un sistema che rende costoso, lento e rischioso entrare nella legalità. Chi vive o gestisce un immobile marginale, privo di rendita o non conforme a una normativa urbanistica che cambia continuamente, lo fa perché l’alternativa – mettersi in regola – richiede risorse che non ha, o perché l’adempimento genera più rischi della situazione di partenza. L’evasione non è sempre strategia predatoria: è spesso meccanismo di autodifesa.
Lo stesso avviene nel mercato delle abitazioni degradate: quelle che il discorso pubblico etichetta come tuguri. L’immaginario li interpreta come segno di sfruttamento, di cinismo e di immoralità. Eppure, gli alloggi scadenti esistono perché esiste una domanda che non può accedere ad altro, e perché l’economia reale si adatta a ciò che le persone possono pagare, non a ciò che la morale pubblica vorrebbe imporre. Gli individui accettano spazi modesti perché non possono permettersi standard elevati, non perché qualcuno li manipola. La funzione di chi offre alloggi di bassa qualità non è distruggere dignità: è colmare un vuoto che nessun regolatore riesce a colmare. Senza quella offerta, la povertà non sparirebbe: resterebbe semplicemente senza tetto. Il mercato non crea i poveri: li ospita. Il potere pubblico, invece, pretende che la povertà scompaia obbedendo ai suoi moduli e ai suoi standard.
Il nuovo intervento sulle “case fantasma” non è un gesto di razionalità, è piuttosto l’ennesima manifestazione di un vizio culturale radicato: la convinzione che il patrimonio immobiliare debba essere omologato da una mano pubblica che decide cosa è legale, cosa è decoroso, cosa è conforme e chi deve pagare il prezzo degli scostamenti. Quando un immobile non entra in questo schema, l’amministrazione statale presume la colpa. E quando procede in questo modo, commina la pena. La rendita presunta, calcolata sulla tariffa più alta, non è un criterio difensivo ma punitivo: costringe il proprietario a dimostrare di non essere colpevole, invertendo l’onere della prova e trattando la non conformità come un atto intenzionale.
Così, mentre l’amministrazione medesima cerca di piegare la realtà alla propria griglia normativa, milioni di persone cercano di piegare se stesse alla sopravvivenza. Di fronte a procedure lente, costi imprevedibili, vincoli edilizi mutevoli, responsabilità penali e sanzioni automatiche, la scelta razionale non è regolarizzare: è evitare l’impatto. L’economia informale nasce da questo: non dal desiderio di frode, bensì dall’impossibilità di percorrere la via legale senza essere schiacciati. Il Moloch normativo crea complessità, e poi punisce l’adattamento come se fosse predazione.
La campagna politica contro le case fantasma produrrà esattamente gli stessi effetti prodotti da decenni di regolazione “moralizzatrice” del mercato abitativo: distruzione dell’offerta marginale, aumento dei costi, abbandono degli immobili, fuga dagli investimenti, e un peggioramento delle condizioni abitative per chi ha meno mezzi. Molti edifici verranno demoliti, abbandonati, lasciati perdere. Non perché siano inutili, ma perché farli esistere legalmente costa più di quanto possono rendere. Il patrimonio edilizio marginale, che risponde a bisogni reali, verrà espulso dal mercato legale e spinto ai margini o nel nulla. Lo Stato pertanto non trasformerà gli abusivi in regolari: trasformerà gli irregolari in rovine.
In un Paese segnato da stagnazione, immobilismo e carenza abitativa, questo non è un incidente: è la naturale conseguenza di un sistema che confonde la legalità con l’ingegneria sociale, il catasto con la realtà, la mappa con il territorio. Si crede che la modernizzazione consista nel trasformare ogni cosa in dato e ogni cittadino in debitore, come se la società dovesse essere normalizzata, non compresa. Eppure, la legalità, quando viene imposta senza riconoscere la scarsità, diventa un lusso che molti non possono permettersi. E quando la legge punisce ciò che non è perfetto, non produce eccellenza: produce abbandono.
L’Italia continua a trattare il patrimonio immobiliare come colpa fiscale e la povertà abitativa come trasgressione. Si crede che la società debba adattarsi alla norma, non la norma alla società. Ma quando l’autorità pubblica proibisce l’imperfetto, distrugge il possibile. E quando distrugge il possibile, non modernizza: desertifica.
Aggiornato il 09 dicembre 2025 alle ore 10:12
