Un esperimento di regolazione dell’abitare che sposta il baricentro dalla scelta individuale alla pianificazione pubblica, con effetti oltre frontiera.
Il Regno Unito ha approvato una delle riforme più radicali della sua storia recente: il Renters’ Rights Act 2025, una legge che non si limita a modificare alcuni aspetti del rapporto locatore-conduttore, ma lo ridefinisce completamente. L’abolizione dei contratti a durata determinata, l’introduzione della locazione “periodica” obbligatoria, la fine degli sfratti senza colpa, la possibilità per l’inquilino di contestare ogni aumento del canone davanti a un tribunale, insieme a nuovi obblighi manutentivi e a un registro nazionale per proprietari e immobili, trasformano l’affitto privato in un rapporto potenzialmente indefinito e rigidamente controllato dallo Stato. È un cambio di paradigma che attribuisce ai conduttori una permanenza tendenzialmente illimitata, mentre riduce la proprietà a un bene utilizzabile solo entro confini fissati dall’autorità pubblica.
Il cuore del provvedimento è la soppressione dei contratti a durata determinata. Prima della riforma era possibile concordare locazioni di sei, dodici o ventiquattro mesi, con una scadenza certa e condivisa; ora quella possibilità scompare del tutto. La locazione diventa un rapporto aperto, rinnovato mese per mese, che il proprietario può interrompere soltanto per ragioni tassative e dopo un percorso probatorio sempre più oneroso. Ciò che per secoli ha definito il contratto – l’inizio e la fine – viene espunto, sostituito da un vincolo che può cessare solo con l’autorizzazione dell’apparato pubblico. In pratica, l’impianto mostra di privilegiare la stabilità del locatario rispetto alla certezza del diritto e ribalta la logica stessa dell’accordo volontario, trasformando un rapporto libero in un vincolo definito dall’autorità.
La trasformazione prosegue. Il nuovo pacchetto normativo rende contestabile ogni aumento del canone: l’inquilino può rivolgersi al tribunale per chiedere la revisione del prezzo, anche quando l’adeguamento è motivato da costi reali, interventi o semplici dinamiche di mercato. Il giudice diventa così l’arbitro permanente del valore di un bene privato. Parallelamente, vengono vietate pratiche tradizionali come la competizione fra potenziali conduttori, limitati i pagamenti anticipati, irrigidita l’attività dei proprietari attraverso standard manutentivi più severi. Persino la decisione di accettare o meno un animale domestico non è più libera e deve essere giustificata secondo tempi e modalità stabilite dalla legge.
Il registro nazionale obbligatorio, che censisce proprietari e immobili, completa detto quadro. È presentato come misura di trasparenza, ma ha in realtà natura intrinsecamente disciplinare: chi possiede un alloggio in affitto è chiamato a rispondere non solo di ciò che fa, bensì anche di ciò che potrebbe fare, come se la proprietà generasse in sé un rischio da controllare. Ogni passaggio viene incanalato in una procedura, ogni iniziativa deve essere giustificata secondo criteri che nulla hanno a che vedere con la libera contrattazione.
Le conseguenze di un simile impianto sono prevedibili. L’assenza di un termine certo del vincolo e della possibilità effettiva di rientrare in possesso dell’immobile rende l’investimento fragile e scoraggia chi immette capitale in un settore già esposto. L’eventualità che ogni adeguamento del canone si trasformi in una controversia giudiziaria riduce l’incentivo a offrire altri alloggi, perché aumenta i costi potenziali e prolunga i tempi di rientro. La proliferazione di regole, l’accumulo di obblighi e l’erosione della discrezionalità riducono l’offerta, fanno salire i prezzi e deteriorano la qualità del patrimonio abitativo.
Da un punto di vista economico, l’esito è coerente con l’esperienza comparata: in mercati dove l’offerta è poco elastica, qualsiasi irrigidimento normativo riduce ulteriormente la disponibilità di alloggi, trasferendo il costo su prezzi, mobilità e capacità di risparmio. Allo stesso modo, politiche che comprimono gli incentivi alla manutenzione e al rinnovo accelerano l’obsolescenza del patrimonio, perché nessuno investe in un bene di cui non controlla durata, redditività e destino. Il risultato sarà un settore meno dinamico, più esposto a conflitti e meno attrattivo per nuovi investimenti, con effetti che si riverbereranno sulla crescita urbana e sulla coesione sociale.
Il paradosso è evidente: una riforma nata con la promessa di ampliare l’accesso alla casa rischia di ottenere l’effetto opposto. La scarsità cresce man mano che il mercato si irrigidisce; l’insicurezza aumenta mentre il diritto di proprietà viene svuotato; la selettività si intensifica via via che gli oneri superano i benefici. Il risultato sarà un ambiente abitativo meno dinamico, più costoso e più conflittuale, come già osservato in altri Paesi che hanno introdotto controlli simili.
Soprattutto, più povero di libertà: un rapporto reso sociale per legge, una durata decisa dall’alto e un valore consegnato a un’autorità giudicante tracciano i confini di un sistema in cui la pianificazione politica sopravanza la responsabilità individuale. È la parabola della gestione collettiva applicata a ciò che, per natura, nasce, e deve rimanere, individuale.
Questa tendenza non riguarda purtroppo solo Londra. In molte città europee e americane si moltiplicano proposte di blocco degli affitti, vincoli sugli usi, aggravi fiscali su chi mette a disposizione alloggi, norme che rendono lo sfratto un evento quasi impossibile. Anche in Italia affiorano spinte che invocano modelli simili, presentando il mercato come un luogo da disciplinare, non come un sistema di cooperazione. È la stessa matrice: la convinzione che lo Stato possa sostituirsi alle scelte degli individui senza generare inefficienza, scarsità e conflitto.
Il Renters’ Rights Act 2025 non è pertanto soltanto una riforma: è l’anticipazione di un modello sociale fondato sulla gestione pubblica dell’abitare. Indica che il confine fra tutela e intervento può essere superato rapidamente e che, quando la politica decide di ridefinire il rapporto fra individui e beni, il risultato sarà sempre lo stesso: la libertà individuale verrà sacrificata in nome di una presunta equità collettiva. Con essa scompare la possibilità di costruire una società fondata sulla responsabilità, sulla cooperazione e sulla volontà, sostituita dall’idea che qualcuno possa decidere per tutti, meglio di quanto ciascuno possa decidere per sé.
In definitiva, il potere non promette libertà: promette sicurezza in cambio della rinuncia a decidere da sé. Chi accetta lo scambio scoprirà troppo tardi di avere perduto entrambe.
Aggiornato il 04 dicembre 2025 alle ore 11:39
