Dimore storiche, la ricchezza privata che lo Stato consuma

Generano ricchezza, ma vengono frenate da burocrazia, divieti sugli affitti brevi e fiscalità ostile.

In Italia esiste un settore produttivo che non delocalizza, né chiede assistenza, neppure grava sulla spesa pubblica. Anzi, genera turismo, lavoro, manutenzione del territorio. È il settore delle dimore storiche. Un mondo fatto di 43mila palazzi, ville e castelli che non sono monumenti statici, ma imprese vive, diffuse soprattutto nelle aree dove lo Stato è più assente e dove solo l’iniziativa privata impedisce lo spopolamento. Nonostante ciò, sono proprio loro, i proprietari che tengono in piedi un patrimonio che appartiene a tutti, a essere trattati come il problema.

In proposito basta scorrere il VI Rapporto dell’Osservatorio Adsi, il quale, a ben vedere, descrive una realtà che contraddice ogni retorica statalista.

Nel 2024 oltre 35 milioni di persone hanno visitato una dimora storica, più di due milioni nelle aree interne. Il 60 per cento di queste residenze svolge attività economiche nel turismo, nell’agroalimentare o nella gestione culturale: non sono reliquie feudali, si tratta di soggetti produttivi che investono, rischiano, creano valore. In molte zone, sono l’unica vera impresa rimasta.

Eppure, questo valore è costruito controvento. L’85 per cento degli interventi di manutenzione – oltre 50mila euro l’anno per bene – è finanziato interamente dai proprietari, mentre i contributi pubblici si fermano al 2 per cento. La spesa complessiva per restauri ha superato 1,9 miliardi di euro nel 2024, quasi tutta privata. Lo Stato incassa, controlla, impone, e tuttavia contribuisce pochissimo. È un modello rovesciato: la ricchezza privata sostiene un bene pubblico, e il pubblico ripaga con ostacoli.

A questo stravolgimento si aggiunge un altro tassello decisivo: la battaglia contro gli affitti brevi. Nel dibattito politico dominato da slogan, essi vengono dipinti come un problema per le città. In realtà, per centinaia di dimore storiche rappresentano la leva che consente di finanziarne la conservazione, aprirle ai visitatori, ripopolare borghi dimenticati e attrarre turismo internazionale. Senza questa flessibilità, molte realtà sarebbero chiuse o in rovina.

Sul segmento di cui trattasi, però, lo Stato continua a moltiplicare vincoli: codici, registri, banche dati, sanzioni, imposizioni locali, aumenti della cedolare secca, restrizioni camuffate da “tutela dei residenti”. È una stretta che non tocca la speculazione – che altrove prospera indisturbata – ma colpisce chi mette sul mercato porzioni di un patrimonio fragile e costosissimo da mantenere. È l’ennesima dimostrazione di un approccio che diffida della libertà economica e preferisce il controllo alla cooperazione.

Ogni nuova norma, adempimento o “laccio” è un costo che può ribaltare l’equilibrio già precario tra entrate e uscite. Come accade, ad esempio, per il palazzo Caposavi a Bolsena, trasformato in struttura ricettiva e polo culturale: tassato come un albergo moderno, gravato da Imu, Tari e vincoli architettonici che non valgono per nessun altro operatore economico, pur sostenendo costi di manutenzione annuali che un’impresa ordinaria non immaginerebbe. Oppure come il giardino monumentale di Valsanzibio, che ha raggiunto il pareggio soltanto nel 2018 nonostante oltre 50mila presenze e un biglietto da 15 euro. O anche il Castello di Valsinni, che sopravvive grazie a una famiglia e a un’associazione culturale, con migliaia di visitatori ma ricavi che non coprono i costi strutturali.

Questi esempi mostrano una verità che il legislatore si ostina a ignorare: il patrimonio culturale privato non sopravvive per decreto, ma grazie alla libertà di chi lo gestisce. Negare ai proprietari la possibilità di diversificare le entrate – affitti brevi compresi – significa avviare questo patrimonio verso un declino inevitabile. La combinazione tra burocrazia e tassazione rende antieconomica una gestione già di per sé complessa e costosa. E considerare scontato che possano sostenere all’infinito la conservazione di beni che producono valore pubblico equivale, semplicemente, a prepararsi alla loro perdita.

Le richieste del settore sono tutt’altro che scandalose: detrazione dell’Iva sugli interventi, estensione dell’Art Bonus ai privati, riduzione dell’imposizione locale, stabilità normativa sugli affitti brevi e sulla gestione ricettiva. Non si chiede un privilegio: si chiede di non essere ostacolati mentre si produce valore pubblico.

È qui la linea di frattura fondamentale: lo Stato continua a ragionare come se la ricchezza fosse un bottino da distribuire e i proprietari un soggetto da limitare. Nondimeno, le dimore storiche dimostrano il contrario: dove prevale la libertà di iniziativa, si rigenera il territorio; dove prevalgono vincoli e sospetti, si genera degrado.

L’Italia è ancora ricca di bellezza perché qualcuno ha scelto di custodirla, non perché il potere pubblico l’ha saputa proteggere. Se si vuole che questa ricchezza sopravviva, la strada è una sola: smettere di intralciare chi la tiene in vita e restituire finalmente un ruolo centrale alla responsabilità individuale, alla proprietà e alla libera iniziativa. In caso contrario, la prossima generazione erediterà meno storia, meno cultura e meno economia. E soprattutto, meno libertà.

Aggiornato il 26 novembre 2025 alle ore 10:58