La proprietà prigioniera: lo Stato vieta perfino di rinunciare

Con una norma inserita surrettiziamente nella manovra 2026 si punta a bloccare gli atti di rinuncia agli immobili, trasformando così il diritto di proprietà in una concessione controllata.

Il diritto di proprietà non è una concessione dello Stato né una creazione della legge: è una libertà originaria, anteriore a ogni ordinamento politico. Eppure, in Italia, dove la cultura giuridica dominante continua a concepirlo come un diritto “funzionale” e subordinato “all’utilità sociale”, ogni volta che un cittadino tenta di esercitarlo pienamente – anche scegliendo di rinunciare al proprio bene – si trova davanti un muro di divieti, sospetti, adempimenti e sanzioni. È il caso della nuova stretta contenuta nella bozza di legge di bilancio per il 2026, che prevede la nullità degli atti di rinuncia alla proprietà immobiliare se non accompagnati da una generica “documentazione attestante la conformità del bene alla vigente normativa urbanistica, ambientale e sismica”.

Dietro questa formula burocratica si cela, in realtà, la negazione di un principio elementare: che la libertà di proprietà comprende anche la libertà di dismettere ciò che si possiede. Lo avevano chiarito con rigore le Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 23093 dell’11 agosto 2024, sancendo la piena legittimità degli atti di rinuncia e affermando che, in loro assenza di cause illecite, il bene rinunciato passa allo Stato ai sensi dell’articolo 827 del Codice civile. In tal modo, i supremi giudici avevano posto fine a un lungo contenzioso, riconoscendo che la rinuncia non è un atto traslativo ma abdicativo, e dunque non soggetto alle formalità di compravendite, donazioni o permute.

Quel pronunciamento, che ha restituito al cittadino la possibilità di liberarsi di un bene divenuto inutile, dispendioso o ingestibile, ha rappresentato tuttavia un raro momento di coerenza giuridica, peraltro di breve durata. La reazione ministeriale non si è infatti fatta attendere: il legislatore, temendo forse un’ondata di rinunce e l’accumulo di immobili inutilizzati nel patrimonio dello Stato, si appresta a vanificare la decisione con un cavillo normativo tanto oscuro quanto paralizzante. E tanto con il nuovo comma della manovra – inserito nel più ampio articolo dedicato alla “razionalizzazione della spesa” – che impone un requisito impossibile da soddisfare: la produzione di documenti che attestino la “conformità alla vigente normativa” in ambiti (ambientale, sismico, urbanistico) per i quali, nella prassi, non esiste un certificato univoco né un modello riconosciuto.

Si tratta, in sostanza, di un adempimento ineseguibile che rende di fatto impraticabile ogni atto di rinuncia. È un esempio da manuale di come la burocrazia utilizzando lo strumento legislativo riesca, con apparente neutralità tecnica, a negare la sostanza della libertà giuridica. In sostanza, lo Stato non tollera che un cittadino scelga di non possedere. Il diritto di rinuncia turba l’idea dirigista secondo cui la proprietà privata deve esistere solo entro i confini fissati dal potere politico: tassabile, controllabile, vincolata, ma mai davvero libera. Ecco allora che, invece di accettare la logica conseguenza del diritto di proprietà – ossia quella di poterne disporre anche abdicando – si preferisce creare un labirinto normativo che scoraggi chiunque dal percorrere quella strada.

Si assiste così all’ennesimo ribaltamento del rapporto tra individuo e Stato: il cittadino non è più titolare di un diritto, rappresenta il mero amministratore di un bene “in concessione”, gravato dalla costante minaccia della nullità, della sanzione o dell’invalidità. La libertà di disporre del proprio patrimonio si dissolve nella rete delle certificazioni e delle conformità obbligatorie, tanto più numerose quanto più inutili.

Non è una semplice complicazione tecnica: è il riflesso di un disegno culturale preciso. Dietro la retorica della “regolarità urbanistica e ambientale” si nasconde in pratica una visione paternalistica e diffidente, che considera gli individui incapaci di gestire autonomamente ciò che possiedono e pretende di filtrare ogni loro scelta attraverso un apparato burocratico onnipresente. È la stessa logica che, in altri ambiti, ha prodotto decenni di vincoli, bonus, piani regolatori e divieti d’uso: strumenti nati per “guidare” i comportamenti economici, che hanno però finito per soffocare la spontaneità del mercato e la responsabilità individuale.

Gli ermellini, con la sentenza di agosto, avevano invece restituito al diritto di proprietà un respiro di libertà, ricordando che possedere significa anche poter abbandonare. È un principio antico, già riconosciuto nel diritto romano, dove l’abdicatio era un atto perfettamente legittimo e socialmente neutro: chi rinunciava a un bene lo restituiva alla res nullius, consentendo ad altri di appropriarsene o, come oggi, allo Stato di acquisirlo. Nessun sospetto, nessuna colpa economica. Oggi, invece, la rinuncia è guardata con sospetto, quasi fosse una frode contro l’ordine costituito.

È pertanto di evidenza lapalissiana che, se lo Stato non sa rinunciare, il cittadino non è più libero. Ogni libertà autentica implica la possibilità del rifiuto: il diritto di non possedere è parte integrante del diritto di possedere. Chi non può rinunciare non è proprietario, ma suddito. Le conseguenze pratiche della nuova norma sarebbero paradossali: bloccherebbero la regolarizzazione di migliaia di situazioni, dalle eredità sgradite agli immobili in rovina, costringendo i cittadini a mantenere a proprie spese beni indesiderati solo per evitare la trappola della nullità. Uno Stato che obbliga a possedere è uno che confonde la legge con la servitù.

L’Italia non ha bisogno di nuovi vincoli, ma di libertà, giuridica ed economica. Serve una politica che semplifichi invece di complicare, che rispetti la volontà individuale invece di ostacolarla con cavilli, che riconosca nel diritto di proprietà un baluardo contro l’arbitrio politico, non una fonte di potere fiscale.

Aggiornato il 22 ottobre 2025 alle ore 11:21