
Chi invoca giustizia salariale dimentica che i veri privilegiati
non sono nel mercato, ma nello Stato.
Alla recente cerimonia delle “Stelle al Merito del Lavoro”, il Presidente della Repubblica ha sostenuto che, dopo la ripresa post-Covid, i salari reali non sono aumentati, mentre “robusti premi hanno riguardato taluni fra i dirigenti”. L’affermazione, apparentemente equa, tradisce tuttavia un errore di prospettiva: scambiare la libertà per disuguaglianza e il merito per privilegio. Non è la differenza tra le retribuzioni a rendere ingiusto un sistema, quanto la sua chiusura alla competizione. In un’economia libera le disuguaglianze non sono un vizio morale, sono la conseguenza naturale della diversità di capacità, rischio e responsabilità. Dove tutto è livellato, nessuno è libero.
Nonostante ciò, si continua a invocare una vaga “giustizia sociale”, come se le disparità fossero ingiustizie da correggere per decreto. Ma già Friedrich A. von Hayek aveva mostrato l’inconsistenza di quel concetto, sottolineando come: “In una società di uomini liberi il termine giustizia sociale sia privo di significato o contenuto” e che il credere in essa “è probabilmente la più grave minaccia per i valori di una civiltà libera”. Il grande economista vi intravedeva una superstizione moderna: un mito dal volto compassionevole ma dagli effetti distruttivi. Chiedere che lo Stato garantisca “risultati giusti” equivale, infatti, a conferirgli il potere di decidere cosa ciascuno meriti. E poiché nessuna autorità può conoscere né valutare le infinite scelte individuali che concorrono all’ordine economico, l’unico modo per “realizzare la giustizia sociale” è distruggere la libertà.
L’Italia ne offre una dimostrazione quotidiana. Mentre si additano imprenditori e dirigenti d’impresa come simbolo di ingordigia, si tace su chi, nel settore pubblico, gode di trattamenti regali. Basti pensare agli alti funzionari dello Stato – segretari generali, capi di gabinetto, magistrati, dirigenti ministeriali e delle cosiddette autorità “indipendenti” – sovente di nomina politica, i quali percepiscono stipendi che superano spesso i duecentomila euro l’anno, con punte oltre i trecentomila, protetti da carriere garantite e da un sistema che li esonera da ogni rischio.
Sono, in sostanza, i sacerdoti laici di quella giustizia sociale che predicano per gli altri: un’aristocrazia burocratica che si proclama servitrice pubblica e che vive invece sulle spalle di chi produce. Il mercato non impoverisce i lavoratori: lo fa lo Stato, che sottrae ricchezza per alimentare sé stesso.
Lo stesso Hayek ha definito tutto questo “il miraggio della giustizia sociale”: un ideale che, dietro la maschera dell’uguaglianza, conduce le società verso forme di potere sempre più pervasive. Perché – ha osservato acutamente – per distribuire ricchezze secondo un criterio di merito o di bisogno occorre un’autorità capace di controllare ogni scelta, ogni compenso, ogni scambio. È in quel momento che la libertà individuale cede il passo alla pianificazione e la giustizia si trasforma in amministrazione. Da qui la sua conclusione più severa: la giustizia sociale è “una frode semantica della stessa razza della democrazia popolare”. È, in pratica, una formula che seduce perché promette equità, ma che dissolve la libertà nel momento stesso in cui pretende di realizzarla. Non è un principio morale, è un espediente linguistico con cui lo Stato giustifica la propria espansione illimitata e l’assoggettamento dell’individuo a un disegno collettivo.
Dietro ogni invocazione alla redistribuzione si nasconde, dunque, la vecchia pretesa di dirigere la vita economica dall’alto. È il sogno di chi crede che la società sia un ingranaggio da regolare e non un ordine spontaneo che nasce dalle libere interazioni. È l’errore di coloro che, non accettando i risultati imprevedibili della libertà, preferiscono il controllo alla responsabilità. Tuttavia, la libertà non produce uguaglianza: produce opportunità, e soltanto attraverso di essa anche i meno favoriti possono migliorare la propria condizione.
In realtà, i salari italiani non ristagnano perché i dirigenti privati guadagnano troppo, ma perché la struttura economica è imbrigliata da un sistema che scoraggia la produttività. L’eccesso di tassazione, la complessità delle norme e la burocrazia riducono l’incentivo a investire e innovare. In un contesto così rigido la ricchezza non si crea: si sposta, si consuma, si disperde.
Le politiche redistributive non correggono siffatta distorsione, la aggravano. Spostano risorse da chi produce a chi le amministra, da chi rischia a chi regola. L’eguaglianza imposta diventa così il contrario della giustizia che pretende di perseguire. Quando il potere pubblico decide chi deve ricevere e quanto, la libertà si riduce a concessione. È allora che la società si chiude e il lavoro perde la sua dignità di atto creativo per diventare semplice strumento fiscale.
Una comunità prospera solo finché chi agisce può godere dei risultati delle proprie scelte: quando questo legame si spezza, il resto è solo amministrazione della scarsità.
Se la libertà è una costruzione fragile, la giustizia sociale è la mano che la sgretola invocando la bontà. E mentre la politica continua a predicare solidarietà, il lavoro resta prigioniero di un sistema che tassa chi produce e protegge chi gestisce.
In definitiva, la sola riforma possibile non è aumentare i salari per legge, bensì restituire spazio alla libertà: meno Stato, meno spesa, meno burocrazia. Solo così il lavoro potrà tornare a essere fonte di dignità e di crescita, non materia di propaganda.
Una società prospera non quando redistribuisce la ricchezza esistente, ma quando lascia libere le persone di crearne di nuova. E la libertà, per fiorire, non ha bisogno di giustizia “sociale”: ha bisogno soltanto di giustizia, di legge uguale per tutti e di responsabilità individuale.
Aggiornato il 20 ottobre 2025 alle ore 09:50