
Dalla discriminazione razziale all’accusa di sfasciare il pianeta, fino alle recenti difficoltà nelle vendite e nella gestione del personale. Il mito Ikea si sta lentamente smontando, a più di 80 anni dalla sua fondazione. Il modello di business funziona sempre meno, e non solo per le recenti polemiche sulla deforestazione dei Paesi da cui si rifornisce (Svezia, Romania e Polonia).
Le proteste dei dipendenti nelle ultime settimane in Francia e Belgio hanno aperto nuovi interrogativi sulla tenuta sociale del gruppo, a fronte di una forza lavoro non sufficientemente preparata e di un più generale problema di carenza di personale. La strategia basata su una produzione di massa standardizzata e su una politica di prezzi bassi, resa possibile dalle consegne dirette in fabbrica e da una gestione razionale dei costi, ha sì attratto molti clienti, ma sta ora facendo emergere alcuni limiti.
Nel biennio 2023-2024, le vendite del gruppo sono diminuite di oltre il 5 per cento, nonostante un aumento del traffico in negozio e online. Questo calo è dovuto al contesto economico globale e al calo della domanda di mobili, che ha costretto Ikea a investire in prezzi più bassi, con conseguente erosione dei margini. Il modello è sotto forti critiche per le sue limitate capacità di personalizzazione e per la qualità talvolta percepita inferiore, conseguenza diretta dell’approccio di riduzione dei costi. Una corsa al ribasso dei prezzi, che però sta esponendo l’azienda alla concorrenza di marchi che puntano sulla personalizzazione e sulla qualità superiore, rendendo il gruppo sensibile alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime e all’instabilità economica globale.
Il capitolo della gestione delle risorse umane, poi, è un nervo scopertissimo. Le critiche si moltiplicano. Tra le problematiche individuate vi è la mancanza di una formazione adeguata per i dipendenti, in particolare nei nuovi punti vendita, che si traduce in una perdita di soddisfazione dei clienti e in un aumento del turnover. I programmi di formazione non sono sempre accessibili a tutti e non tengono sempre conto della diversità delle situazioni locali, il che limita l’efficacia e l’integrazione dei nuovi assunti, evidenzia un reportage della televisione belga francofona Rtbf. Il rapido ritmo delle assunzioni, legato all’espansione del gruppo, ha talvolta portato a reclutare candidati non idonei e a difficoltà di integrazione. La richiesta di prestazioni e redditività fa sì che alcuni dipendenti considerino molto pesante il proprio carico di lavoro. La risposta a tutto questo sono state ristrutturazioni che hanno causato 7.500 tagli occupazionali nei reparti centrali, per razionalizzare i costi e adattare il modello alle nuove realtà economiche.
In questi ultimi 25 anni Ikea ha dovuto rimediare a parecchie gaffes. La più eclatante nel 1999, quando la direzione dipartimentale del lavoro francese ha avviato un’indagine per sospetta discriminazione razziale nelle assunzioni in un punto vendita vicino a Lione. Un’e-mail interna richiedeva esplicitamente di evitare la distribuzione di cataloghi a “persone di colore”, con la motivazione che “purtroppo non apriamo loro la porta così facilmente e dobbiamo agire rapidamente”. I sindacati Cgt e Cfdt hanno subito presentato reclamo, accusando l’azienda di escludere sistematicamente le persone di colore dalle posizioni a contatto con i clienti, rivelando una politica discriminatoria. Ikea France ha riconosciuto l’esistenza di questo documento, ne ha denunciato la natura inaccettabile e ha avviato un’indagine interna, promettendo sanzioni contro l’autore. Nonostante l’impegno ad avviare politiche di reclutamento inclusive e di pari opportunità, alcuni rapporti hanno evidenziato, nell’ultimo decennio, che il settore della vendita al dettaglio rimane esposto a rischi persistenti di discriminazione.
Ma Ikea è sotto attacco anche perché dietro la sua immagine, un po’ offuscata, di impresa virtuosa si palesa la realtà di un’azienda divoratrice di legno che, come tale, mette a rischio l’ecosistema. Ogni anno, Ikea si pappa 20 milioni di metri cubi di legno, pari all’1 per cento del legno tagliato nel mondo: un albero ogni due secondi. L’azienda possiede 280mila ettari di foreste ed è in assoluto la più grande consumatrice di legno al mondo. Se vogliamo rifarci casa a prezzi modici “bisogna economizzare da qualche altra parte, e allora dovete chiudere gli occhi e abbattere foreste vergini perché sono quelle che restano in piedi”, si lasciò scappare un giorno Johan Stenebo, ex assistente del fondatore. E la verginità l’hanno persa da un pezzo gli svedesi, e chi a loro s’ispira o dice di ispirarsi.
Un po’ più a sud di Smaland (laddove il giovane Ingvar Kamprad avviò l’impresa), le cose per i lavoratori sembrano volgere al peggio. Nelle ultime settimane diversi scioperi hanno interessato il Belgio (Mons, Anderlecht, Zaventem, Wilrijk) e Francia (Caen e Reims), facendo seguito alle forti mobilitazioni registrate anche in Olanda, Canada e nella stessa Italia. In Belgio, i sindacati non sono riusciti a contrattare l’assunzione di almeno 20 nuovi contratti a tempo indeterminato per ovviare alla carenza di personale e a sovraccarichi di lavoro “che impediscono ai dipendenti di fare perfino il loro lavoro di base”, come hanno raccontato i sindacati. In Francia, dove Ikea ha 36 punti vendita che impiegano 12mila persone, l’estate si ricorderà per l’ondata da scioperi proclamati da Cfdt, Cgt e Fo, per l’aumento dei salari e il miglioramento delle condizioni di lavoro. I dipendenti, che non guadagnano neanche 1.400 euro netti al mese, a fronte di un utile netto dell’azienda di 2,2 miliardi di euro nel 2024, denunciano sollecitazioni muscolo-scheletriche sempre più elevate, carenza cronica di personale e una crescente pressione manageriale, che stanno innescando un degrado sempre più evidente degli ambienti di lavoro.
Aggiornato il 17 ottobre 2025 alle ore 10:39