
Sul Corriere della Sera Mario Monti ha provato a sistematizzare la sorpresa di molti italiani: rispetto alla Francia, siamo messi meglio. È vero per la dinamica del debito, per il sistema previdenziale, per la stabilità di governo. Giustamente, Monti rivendica i propri meriti: a cominciare dalla riforma Fornero. Oltralpe non riescono a copiarla, neppure oggi, quattordici anni dopo. Perché?
Sulla risposta offerta dall’ex premier, è lecito avere qualche dubbio. Anche prima della “salita in campo”, Monti è sempre stato un sostenitore della formula della coalizione ampia per fare le riforme. Una sorta di disarmo bilaterale per fare le cose che davvero servono.
Chiariamo una cosa. Alle riforme istituzionali non si può chiedere una determinata agenda, che in democrazia sta agli elettori definire: voteranno loro per chi vuole fare più o meno spesa pubblica. Tutti i premier italiani lamentano, regolarmente, di avere a disposizione un arsenale più ridotto di quello dei loro omologhi stranieri. Non è un caso se lo stesso Presidente Napolitano, che aveva scelto Monti per la guida di un governo “tecnico”, volle avviare un processo di ripensamento della Costituzione nel quale era previsto un aumento dei poteri dell’esecutivo, e segnatamente del presidente del Consiglio. In qualsiasi funzione, il meccanismo di selezione non è estraneo ai poteri che essa può esercitare. L’investitura elettorale diretta dota il primo ministro della legittimazione massima possibile in un sistema democratico, e lo rende così meno esposto alle richieste (ai ricatti) della sua coalizione.
La Francia di oggi ha molti problemi, ma è ingeneroso fissarsi su un fotogramma dimenticando il film. La Quinta Repubblica è stata una delle poche “democrazie governanti” dell’Europa continentale. Le difficoltà di Macron sono il fallimento di una “grande coalizione”, quella formatasi nelle due ultime elezioni presidenziali per fermare l’avanzata della destra, che si è rivelata incapace di affrontare le questioni che stavano alla base di quella avanzata. Il fallimento riguarda la cultura politica egemone, non la formula istituzionale.
Ci piacerebbe molto che esistessero istituzioni che producono, in automatico, governi che non fanno debito. Ma l’Italia, come ricorda anche Monti, durante il suo governo cambiò l’articolo 81 con l’obiettivo di vincolarsi al pareggio di bilancio. Da allora, non abbiamo mai avuto un anno in cui il Parlamento non abbia votato per autorizzare un bilancio in deficit, e quello minore, è il caso di ricordarlo, lo fecero i “populisti” Lega e Cinque stelle. Furono i mercati a esercitare pressione in tal senso, non meccanismi interni al quadro politico.
In realtà la formula della grande coalizione per fare le riforme non ha funzionato neanche nel Paese che l’ha inventata: la Germania. Angela Merkel ha senz’altro garantito grande stabilità ma ha fatto zero riforme pro-mercato, coi risultati che oggi possiamo osservare.
Da ultimo, bisogna ammettere che l’equidistanza dei tecnici si è rivelata una finzione e ha prodotto una forte risposta della classe politica. Due premier tecnici hanno poi fondato un partito, un altro è stato ministro del tesoro e poi Presidente della Repubblica, l’ultimo è stato visto (a torto o a ragione) come un candidato al Quirinale e respinto con perdite dal Parlamento. I partiti rimasti fuori dalle grandi coalizioni hanno sempre accresciuto il proprio consenso alle successive elezioni: vale per Lega e Cinque stelle, ma anche per Giorgia Meloni (come oggi per l’Afd in Germania).
È sempre difficile interrogarsi sulle cause della disaffezione dalla politica, che è una scelta come tante. Una però è senz’altro l’impressione dell’elettore di non poter scegliere chi lo governi. L’impressione si è rivelata più volte corretta, nell’Italia degli ultimi trent’anni. Parte della forza di Meloni è proprio la linearità del percorso: si è candidata a governare e ora governa. Quella linearità beneficerebbe di una istituzionalizzazione, e così la stabilità politica che essa produce.
(*) Natale D’Amico membro del comitato di indirizzo Ibl, Alberto Mingardi direttore generale Ibl
Aggiornato il 06 ottobre 2025 alle ore 14:31