
Numeri in aumento solo sulla carta, mentre il sistema resta prigioniero della burocrazia e dell’uguaglianza imposta
L’Italia si conferma fanalino di coda in Europa per numero di laureati. Lo certifica l’ultimo rapporto Education at a Glance 2025 dell’Ocse, che presenta indicatori internazionali sull’istruzione: struttura dei sistemi, finanziamenti, risultati, esiti occupazionali, competenze degli adulti. Nell’ultima edizione viene posto un focus particolare sull’istruzione terziaria (universitaria), sulla prosecuzione degli studi, sul rendimento in termini di lavoro, e sulle competenze acquisite dagli adulti (Survey of Adult Skills / PIAAC). Per il report, nel nostro Paese solo un giovane su tre raggiunge il titolo accademico, contro una media che nell’Unione sfiora il 50 per cento. Peggio di noi, nel mondo, fa soltanto il Messico. In patria, però, i titoli dei giornali hanno preferito sottolineare che gli iscritti all’università hanno toccato la soglia dei due milioni, come se questo bastasse a trasformare un sistema inefficiente in un motore di crescita.
Il nodo è che in Italia anche chi conquista il traguardo della laurea non trova adeguato riconoscimento. Guadagna in media un terzo in più rispetto a chi ha un diploma, mentre negli altri Paesi Ocse il differenziale è ben superiore: una volta e mezza. Il mercato segnala, dunque, una verità scomoda: non è tanto il numero di laureati a fare la differenza, quanto la qualità delle competenze che l’università riesce a trasmettere. E su questo terreno la scuola italiana, dalle elementari fino agli atenei, fallisce clamorosamente.
Il dato più inquietante riguarda il livello di alfabetizzazione degli adulti: il 37 per cento degli italiani tra i 25 e i 64 anni riesce a comprendere soltanto testi brevi e semplici, contro il 27 per cento della media Ocse. Un handicap culturale che si riflette sulla vita quotidiana: gestione dei risparmi, capacità di informarsi, fiducia nelle istituzioni. Ancora più grave è che lo stesso limite riguarda il 16 per cento dei laureati, segno che il titolo di studio non garantisce affatto competenze solide.
Le università, costrette a introdurre gli Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi), partono da corsi di recupero di grammatica e logica. Un paradosso che rivela come la vera emergenza sia a monte: l’istruzione primaria e secondaria. Come confermano i test Invalsi, i ritardi si accumulano fin dalle elementari, esplodono alle medie e diventano cronici alle superiori. È qui che lo Stato mostra l’incapacità di garantire un percorso formativo minimo, preferendo moltiplicare programmi, agende, piani straordinari che finiscono per stratificare burocrazia e clientele.
A rendere più profonda la crisi c’è l’iniquità sociale: i figli di genitori senza laurea hanno appena il 15 per cento di probabilità di laurearsi, contro il 63 per cento di chi cresce in famiglie più istruite. Una forbice che in Italia è molto più ampia che altrove, segno che l’ascensore sociale è inceppato. Lo Stato, che pretende di farsi garante dell’uguaglianza, perpetua in realtà i privilegi: chi parte svantaggiato resta indietro, chi parte avvantaggiato conserva i suoi vantaggi.
Sul piano economico, la fotografia è altrettanto scoraggiante. La spesa pubblica per l’istruzione è appena l’1 per cento del Pil, tra le più basse in Europa. Eppure, dal 2015 i finanziamenti crescono senza che i risultati migliorino. Segno che non è questione di quantità di risorse, ma di come vengono utilizzate. Gli stipendi dei docenti, nel frattempo, sono calati del 4,4 per cento in dieci anni, mentre nel resto dell’Ocse sono aumentati del 14,6. Il risultato è un corpo insegnante demotivato, costretto a inseguire riforme improvvisate, privo di autonomia e responsabilità.
L’unica risposta ufficiale, nelle ultime settimane, è stata l’annuncio di ulteriori 500 milioni per “Agenda Sud” e “Agenda Nord”, due iniziative promosse dal Ministero dell’Istruzione e del Merito in Italia, nell’ambito del Pnrr e dei programmi per il settore scuola, con l’obiettivo di ridurre i divari territoriali negli apprendimenti e contrastare la dispersione scolastica. Si tratta in buona sostanza degli ennesimi programmi calati dall’alto con la pretesa di colmare divari territoriali, osservando una logica che ripete l’errore di fondo: centralizzare le decisioni, distribuire sussidi, inventare nuovi contenitori. Vi è da ribadire, infatti, che non è con i fondi straordinari che si riduce la dispersione scolastica o si alza il livello delle competenze. Lo si fa con riforme ben più profonde e radicali, che possano favorire la libertà di scelta educativa, la concorrenza tra scuole e università, la responsabilizzazione di docenti e studenti.
Se davvero si vuole invertire la rotta, bisogna pertanto restituire autonomia alle istituzioni formative, rompere il monopolio statale, permettere alle famiglie di decidere attraverso strumenti come i buoni scuola, consentire agli atenei di competere liberamente su qualità, organizzazione, finanziamenti. L’esperienza internazionale dimostra che laddove si introduce pluralismo educativo, i risultati migliorano: più competenze, più innovazione, più opportunità. Il Cile, ad esempio, con l’introduzione dei voucher scolastici, ha reso possibile a migliaia di famiglie scegliere tra scuole diverse, favorendo la qualità. Nel mondo anglosassone, le università private convivono da secoli con quelle pubbliche, stimolandosi a vicenda in una concorrenza che ha prodotto eccellenze riconosciute a livello globale.
Il grande tema di fondo è la conoscenza come bene diffuso. Già i moralisti scozzesi avevano intuito che il progresso nasce non dalla pianificazione centrale, bensì dalla somma di esperienze, talenti e scelte individuali. Ogni tentativo di concentrare il sapere nelle mani dello Stato impoverisce la società, mentre la sua dispersione, resa possibile da istituzioni libere, genera creatività e crescita. Anche la sociologia novecentesca – basti pensare a Max Weber – ha mostrato come il sapere si distribuisca nella società in modo spontaneo, e come solo istituzioni flessibili e aperte possano valorizzarlo.
La vera ricchezza di un Paese non è il numero di titoli conferiti, è piuttosto la capacità di trasformare la conoscenza in libertà, responsabilità e sviluppo. Per l’Italia, il tempo dei pannicelli caldi è finito: o si spezza il monopolio statale sull’istruzione, o resteremo prigionieri di un sistema che produce titoli di carta e povertà reale.
Aggiornato il 29 settembre 2025 alle ore 10:32