“Free speech” e vecchi media, un conflitto aperto

Nell’epoca digitale la libertà di espressione sta assumendo una dimensione più complessa e articolata, caratterizzata da tensioni profonde che investono non solo aspetti etici e giuridici, ma anche rilevanti dinamiche economiche.

In questo contesto, sta emergendo una nuova cultura, la cosiddetta del free speech, intesa come la richiesta di una libertà assoluta e senza compromessi nel parlare, opinare e condividere contenuti, che a nostro modo di vedere si inserisce in un ecosistema mediale dominato da interessi economici divergenti, modelli di business innovativi e algoritmi che orientano e condizionano la visibilità e la diffusione dei messaggi.

Da questo punto di vista la libertà di espressione si configura non soltanto come un diritto civile o politico, ma anche (e più che nel passato) come un asset economico di enorme rilievo, che diviene terreno di scontro tra attori eterogenei coinvolti nella produzione, selezione, distribuzione e consumo di contenuti. In particolare, secondo il nostro modo di vedere, la cultura del free speech è sempre più mobilitata da operatori con finalità economiche e di potere, in un confronto che oppone media tradizionali e nuovi media, ciascuno con i propri interessi e strategie.

Invero, il mutamento radicale dell’ecosistema informativo, grazie alla digitalizzazione e all’affermazione delle piattaforme online, ha abbattuto le barriere di ingresso nella produzione di contenuti, dando la possibilità a chiunque di accedere a strumenti di comunicazione digitale come blog, social network, canali video e podcast, fenomeno ben analizzato da Yochai Benkler in The Wealth of Networks, che evidenzia come la comunicazione si sposti da una produzione industriale a una rete distribuita, sociale e partecipativa. Tuttavia, tale democratizzazione presenta anche una faccia problematica di natura economica: l’abbondanza di produttori moltiplica la competizione per l’attenzione di un pubblico limitato, facendo dell’attenzione stessa la principale merce scambiata nelle piattaforme digitali. Gli algoritmi, infatti, selezionano e amplificano contenuti in base all’engagement, privilegiando spesso post virali, polarizzanti o sensazionalistici, come sottolineato dagli studi sull’economia dell’attenzione, un paradigma secondo cui l’attenzione umana rappresenta una risorsa scarsa e preziosa da monetizzare.

In effetti, a ben vedere, il successo economico delle piattaforme e dei singoli creator dipende dalla capacità di attrarre visibilità attraverso like, condivisioni, commenti e interazioni che, a loro volta, generano ricavi da pubblicità, sponsorizzazioni, donazioni e abbonamenti. Come abbiamo in passato già avuto modo di evidenziare questo modello evidenzia disuguaglianze significative: la monetizzazione rimane concentrata nelle mani di pochi soggetti dotati di grande audience, mentre i produttori marginali affrontano difficoltà economiche e reputazionali che ne limitano la libertà reale di espressione. Parallelamente, i media tradizionali, costituiti da stampa, radio e televisione, affrontano una crisi strutturale dovuta alla perdita di lettori e spettatori, alla frammentazione dell’audience e alla crescente concorrenza dei nuovi media digitali. I loro tradizionali modelli economici, basati su investimenti ingenti, infrastrutture complesse e contenuti prodotti da redazioni professionali, risultano ormai insostenibili di fronte alla disponibilità di contenuti gratuiti e facilmente accessibili online.

In tale scenario, i media tradizionali tentano di ristrutturare la propria offerta introducendo modelli ibridi che comprendono paywall, abbonamenti, contenuti esclusivi e iniziative multimediali, con l’obiettivo di preservare la propria credibilità e autorevolezza come fattori distintivi in un mercato altamente competitivo. Inoltre, essi esercitano una forte pressione sul piano regolatorio, denunciando la proliferazione di fake news e la perdita di qualità dell’informazione, e promuovendo norme volte a responsabilizzare gli editori e a contrastare la disinformazione.

In questa dialettica, la cultura del free speech assume una duplice funzione: da un lato rappresenta una strategia retorica che legittima e rafforza la posizione morale di chi si pone come alternativa ai media istituzionali percepiti come censori o parziali, dall’altro diventa un terreno di competizione commerciale, poiché la rivendicazione di una libertà espressiva assoluta attrae segmenti di pubblico diffidente e desideroso di accedere a fonti “non filtrate”. La ricerca condotta da Wpp che indica come i contenuti generati dagli utenti sui social media supereranno nel 2025 per ricavi pubblicitari quelli dei media tradizionali è indicativa di uno spostamento decisivo del baricentro economico nell’ambito dell’informazione digitale.

Tuttavia, il modello basato sul free speech come opportunità economica presenta limiti strutturali. La monetizzazione è infatti vincolata a regole imposte dalle piattaforme, che tramite le loro politiche di demonetizzazione, moderazione e gestione algoritmica influenzano in modo determinante i contenuti ammessi e premiati. Inoltre, gli inserzionisti mantengono un ruolo cruciale, poiché essi preferiscono non associare i propri marchi a contenuti estremi, polarizzanti o che potrebbero generare controversie legali e danni reputazionali. Tale condizione determina una selezione indotta che privilegia contenuti ad alto tasso di engagement, spesso provocatori o meno rigorosi dal punto di vista informativo, a discapito di quelli più ponderati e socialmente utili. Questa dinamica alimenta fenomeni di polarizzazione e sensazionalismo, in un circolo vizioso che premia l’emotività e il conflitto rispetto alla qualità del discorso pubblico.

Le piattaforme digitali si configurano così non soltanto come spazi neutri di diffusione, ma come attori economici dotati di poteri regolatori e decisionali, che implementano regole e algoritmi con l’obiettivo di massimizzare il coinvolgimento degli utenti, tutelare i rapporti commerciali con inserzionisti e partner, e minimizzare rischi legali e controversie politiche. L’operato di queste piattaforme genera dunque un vincolo economico e reputazionale alla libertà di espressione, rendendo quest’ultima condizionata e mediata da meccanismi di mercato e regolatori non sempre trasparenti.

La cultura del free speech può inoltre essere interpretata come una strategia economica volta a differenziarsi nel mercato dell’informazione, costruendo un marchio identitario fondato sulla rivendicazione di una libertà di parola “senza filtri”. Tale posizionamento genera un pubblico fedele, asset economico fondamentale per chi produce contenuti, ma comporta anche un incremento delle provocazioni e delle sfide ai limiti, esponendo i creatori a rischi reputazionali, pressioni regolatorie e perdite economiche, come dimostrano fenomeni di demonetizzazione e shadow banning.

Da un punto di vista teorico, questa situazione richiama la teoria del market for loyalties formulata da Monroe Price, che evidenzia come i poteri politici e monopolistici tentino di controllare i media attraverso regolamentazioni e costrizioni indirette, influenzando la fedeltà dell’audience più che la proprietà diretta. Questa interpretazione sottolinea come la libertà di espressione, lungi dall’essere un bene assoluto, sia soggetta a dinamiche di potere economico e politico che ne determinano l’effettiva realizzazione. Inoltre, la selezione dei contenuti all’interno dell’economia digitale, guidata da criteri quantitativi di visibilità e interazioni, si traduce in una contraddizione intrinseca tra la purezza ideale del discorso libero e le logiche di mercato che ne premiano esclusivamente gli elementi più virali e polarizzanti, con evidenti implicazioni per la qualità della democrazia e del dibattito pubblico.

A ciò si aggiunge la questione del potere concentrato nelle mani di poche grandi piattaforme globali, quali Google, Meta, TikTok e YouTube, che detengono il controllo su infrastrutture essenziali, algoritmi proprietari e regole di moderazione, determinando in modo decisivo quali contenuti possano emergere e quali vengano marginalizzati o esclusi. Questa concentrazione accentua i rischi di esclusione delle voci alternative e marginali, limitando ulteriormente la pluralità e la diversità del discorso pubblico. Sul piano regolamentare, la crescente consapevolezza di questi fenomeni ha portato a iniziative normative, in particolare nell’Unione Europea, volte a imporre trasparenza sugli algoritmi, responsabilità delle piattaforme, obblighi di moderazione e misure contro la disinformazione. Tali interventi, va osservato, comportano costi rilevanti per gli operatori e rischiano di produrre un effetto di irrigidimento delle politiche di contenuto, accentuando ulteriormente le limitazioni alla libertà espressiva, specie in ambiti controversi.

In conclusione, si osserva come la libertà di espressione nell’ecosistema informativo digitale sia soggetta a una negoziazione continua e complessa tra diritti fondamentali e interessi economici. Conseguentemente la cultura del free speech è (come quella dei media tradizionali) profondamente intrecciata con dinamiche economiche che ne condizionano la concreta attuazione: visibilità, monetizzazione, regole di piattaforma e normative governative configurano un quadro in cui la libertà di espressione non è mai pura o totale, ma sempre mediata da fattori economici e di potere che ne plasmano le modalità, i limiti e le possibilità.

È chiaro spero adesso come il conflitto attuale che contrappone l’Europa regolatrice ad una America trumpiana fortemente aperta, non è un semplice confronto ideologico tra difensori e detrattori della libertà di parola, bensì un complesso gioco di interessi economici e strategici che definiscono quali voci emergano e quali restino marginalizzate nel panorama mediatico contemporaneo.

(*) Economista

Aggiornato il 26 settembre 2025 alle ore 11:20