
Nel settembre 2025, l’Ocse ha pubblicato il suo rapporto intermedio sull’economia globale, rivedendo al rialzo le stime di crescita del Pil mondiale per l’anno in corso, portandole al 3,2 per cento. Questo dato risulta particolarmente rilevante alla luce di un contesto globale fortemente segnato da un ritorno a politiche commerciali restrittive, in particolare da parte degli Stati Uniti, che secondo stime Ocse (e del Peterson Institute) hanno innalzato i dazi medi fino a un livello vicino al 19,5 per cento, valore che si avvicina a quello massimo registrato nel 1933, anno della Grande Depressione e dello Smoot-Hawley Tariff Act, anche se a ben vedere, questo dato andrebbe interpretato come una media su beni strategici e non come media generale ponderata su tutte le importazioni, che resta significativamente più bassa.
La crescita globale si verifica quindi in uno scenario in apparenza contraddittorio: mentre il commercio internazionale si contrae e le politiche protezionistiche guadagnano spazio, l’economia mondiale mostra una sorprendente resilienza, trainata in gran parte dalla spinta di alcune economie emergenti come India, Cina e diversi paesi africani.
Questo fenomeno solleva interrogativi importanti: come può l’economia mondiale crescere in presenza di barriere al commercio? Quali fattori strutturali permettono questa tenuta del Pil nonostante il rallentamento degli scambi? E quali sono le implicazioni di lungo periodo di questo cambiamento di rotta?
Per comprendere questo scenario è necessario partire dall’analisi dei dati. Secondo l’Ocse, la crescita globale sarà del 3,2 per cento nel 2025, leggermente inferiore al 3,3 per cento registrato nel 2024 ma comunque superiore alle previsioni precedenti. Per il 2026 è attesa una frenata al 2,9 per cento, segno che gli effetti delle tensioni commerciali potrebbero manifestarsi in modo più evidente con un certo ritardo. Tra le economie avanzate, gli Stati Uniti mostrano un rallentamento significativo, passando da un +2,8 per cento nel 2024 a un +1,8 per cento nel 2025, mentre l’Eurozona e il Giappone si mantengono su tassi di crescita modesti, rispettivamente intorno all’1,2 per cento e allo 0,9 per cento.
Le vere protagoniste della crescita sono le economie emergenti: la Cina è attesa crescere del 4,9 per cento nel 2025, l’India supera abbondantemente il 6 per cento, e alcuni paesi dell’Africa subsahariana si avvicinano al 5 per cento annuo. È evidente quindi che la crescita del Pil mondiale è fortemente sbilanciata verso queste regioni, che beneficiano di dinamiche interne espansive, forti investimenti infrastrutturali e un graduale processo di industrializzazione e digitalizzazione. Tuttavia, ciò che rende questo scenario eccezionale è la coesistenza tra crescita economica e riduzione degli scambi globali.
Il commercio mondiale, infatti, registra una contrazione o, nella migliore delle ipotesi, una stagnazione. Questo avviene in larga misura per via dell’adozione di politiche di rilocalizzazione produttiva: molte imprese, soprattutto nei paesi industrializzati, stanno spostando parte delle loro attività manifatturiere in aree più prossime ai mercati finali, riducendo la dipendenza da lunghe e vulnerabili catene di approvvigionamento internazionali. Questo processo, noto come nearshoring, ha l’effetto di ridurre i flussi commerciali transfrontalieri senza necessariamente deprimere la produzione economica complessiva. Si assiste quindi a una regionalizzazione della produzione, che comporta una minore integrazione globale ma non un calo immediato del Pil. A ciò si aggiunge il ruolo sempre più dominante dei servizi. Oggi circa il 65-70 per cento del Pil mondiale è composto da attività del settore terziario, come finanza, assicurazioni, sanità, istruzione, tecnologia digitale e altri servizi professionali.
Secondo dati Ocse e World Bank aggiornati al 2024, la quota di valore aggiunto dei servizi sull’economia globale ha superato il 68 per cento. Questi settori, a differenza della manifattura, generano valore in modo meno tangibile e meno legato al commercio internazionale tradizionale. La loro espansione riduce l’impatto delle barriere commerciali sui dati macroeconomici globali. Inoltre, molti servizi sono consumati e prodotti localmente, e non attraversano confini fisici, rendendoli meno sensibili ai dazi. Proprio per questo motivo, l’imposizione di tariffe, anche elevate, può avere un effetto limitato sulla dinamica aggregata del Pil, soprattutto nei paesi ad alto contenuto di servizi.
Un altro elemento da considerare è l’evoluzione delle tecnologie produttive e distributive. L’adozione diffusa dell’intelligenza artificiale, dell’automazione e delle piattaforme digitali ha trasformato profondamente i modelli economici tradizionali. Le imprese sono oggi in grado di ottimizzare i processi, ridurre la dipendenza da fornitori esteri e accorciare le filiere. Questo aumenta la resilienza e può addirittura stimolare la crescita economica interna, pur a scapito del commercio globale.
Sul piano politico, si assiste a un ritorno dell’intervento pubblico nell’economia. Dopo decenni di globalizzazione e deregulation, la pandemia di Covid-19 ha aperto la strada a un nuovo paradigma, in cui gli Stati tornano a giocare un ruolo attivo attraverso politiche industriali, sussidi mirati, incentivi fiscali e investimenti pubblici. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno varato massicci pacchetti di spesa per promuovere la produzione interna in settori strategici come microchip, energie rinnovabili e batterie. Queste politiche, pur protezionistiche, hanno sostenuto la domanda interna e l’occupazione, limitando l’impatto negativo dei dazi sul Pil nazionale. Tuttavia, queste trasformazioni pongono nuove sfide alla capacità degli economisti di formulare previsioni affidabili.
L’affidabilità dei modelli economici tradizionali è messa in discussione, sia per la crescente complessità dei sistemi economici globali, sia per la mancanza di precedenti storici comparabili. Sebbene sia inesatto affermare che non esistano studi recenti sugli effetti dei dazi (ne sono stati pubblicati numerosi tra il 2018 e il 2023 a seguito della guerra commerciale Usa-Cina), è vero che manca una base empirica estesa sull’impatto sistemico e globale di un ritorno generalizzato al protezionismo. Molti studi si concentrano su settori specifici o su impatti di breve periodo. Un altro aspetto sottovalutato è l’impatto differenziato che le politiche tariffarie hanno sui vari settori. Alcuni comparti, come l’industria automobilistica, l’elettronica e l’agroalimentare, sono molto più sensibili ai dazi rispetto ad altri. Di conseguenza, l’impatto macro può sembrare contenuto, ma a livello settoriale si registrano forti shock, con ristrutturazioni aziendali, perdite di competitività e rischi occupazionali. Questi effetti sono spesso “invisibili” nei dati aggregati ma si fanno sentire sul tessuto produttivo e sociale. Inoltre, nella valutazione della crescita non si può trascurare il ruolo dell’inflazione, che è tornata ad aumentare in diverse economie a causa del rialzo dei prezzi dell’energia e delle materie prime, contribuendo a una crescita nominale del Pil che può sovrastimare la performance reale.
Le politiche monetarie restrittive attuate da Fed, Bce e altre banche centrali nel biennio 2023-2025 stanno gradualmente trasmettendo i loro effetti, rallentando investimenti e consumi. Anche il mercato del lavoro va considerato: sebbene il Pil cresca, in alcuni paesi si registra una stagnazione salariale o un aumento della precarietà, che può erodere la qualità della crescita. Infine, è da sottolineare che la crescita osservata non è necessariamente sostenibile dal punto di vista ambientale. La ripresa industriale in paesi emergenti ha comportato un aumento delle emissioni, mentre la transizione energetica globale procede a velocità diverse. In conclusione, il 2025 ci offre un esempio concreto di come l’economia globale stia entrando in una fase nuova e più complessa.
La crescita del Pil non è più necessariamente legata all’espansione del commercio mondiale, e il ritorno del protezionismo, seppur parziale, non ha ancora prodotto effetti negativi su vasta scala. Questo non significa che tali effetti non arriveranno: l’Ocse stessa avverte che l’impatto pieno dello shock tariffario potrebbe manifestarsi con un certo ritardo, soprattutto nel 2026.
Tutto ciò detto, possiamo comunque sostenere che le economie emergenti continuano a trainare la crescita, ma che comunque le incertezze aumentano. La frammentazione commerciale, la regionalizzazione delle catene del valore, l’asimmetria tra settori, la pressione ambientale e la ridefinizione delle politiche industriali impongono una revisione profonda dei modelli interpretativi e previsionali.
In questo nuovo mondo economico, non basta più osservare gli scambi commerciali per capire dove va l’economia globale: occorre leggere in controluce le trasformazioni strutturali, i segnali deboli e i cambiamenti politici che stanno ridefinendo le regole del gioco. E questo fatto probabilmente dovrebbe portare tutti a confidare meno delle proiezioni e prestare più attenzione alle tendenze di fondo, che vede l’economia mondiale muoversi verso una riallocazione dei fattori della produzione e dei capitali in aree regionali sostanzialmente autoprotette.
(*) Economista
Aggiornato il 25 settembre 2025 alle ore 18:41