#Albait: Bravo Governo, ma il ceto medio è sempre in croce

Il Governo ha ottenuto successi importanti. Il rapporto debito/pil declina, sia pur lentamente. L’Italia si allontana dalla procedura di debito eccessivo dell’Unione europea. La conseguenza è il miglioramento del rating di credito. Fitch ha portato il nostro debito a una classificazione Bbb+. Possiamo sperare di tornare a vedere la A, vale a dire la promozione tra le economie sane del mondo. Ma questi risultati non si traducono in un sollievo per i cittadini. Specie per alcuni. Il debito pubblico diminuisce in percentuale sul Pil. Oggi siamo al 135 per cento sul Pil, rispetto al 152 per cento dell’epoca Covid. In termini assoluti supereremo presto i 3.100 miliardi di euro.

IL FISCO RESTA ECCESSIVO E INIQUO PER ALCUNI

Per questo il successo del Governo si basa su una pressione fiscale totale in Italia in aumento. Non lo dicono le aliquote, ma le entrate fiscali. Che crescono. Chi paga? Per capirlo, dobbiamo considerare che la pressione fiscale italiana si articola su quattro livelli amministrativi: Stato, Regioni, Province, Comuni. Le modalità di pagamento includono una miriade di balzelli, tariffe e addizionali. Ora guardiamo alla composizione sociale e ai pagatori. Il 5 per cento della popolazione italiana possiede la metà della ricchezza, ma partecipa alle spese pubbliche per un decimo. I nove decimi del gettito fiscale sono sostenuti da tutti gli altri? No. Quasi la metà della popolazione non ha capacità economica per contribuire alle spese pubbliche. Solo circa il 45 per cento della popolazione paga praticamente tutto.

LA CRISI DEL CETO MEDIO

Il peso maggiore della spesa pubblica ricade sui redditi tra i 38mila e i 150mila euro. Chi sono queste persone? È il ceto medio produttivo e creativo che ha sostenuto l’economia italiana, nei due boom economici del secolo scorso: quello degli anni Sessanta e quello degli anni Ottanta. I loro guadagni sono ragguardevoli sulla carta. In particolare, quelli costretti ad avere una partita Iva devono districarsi tra complessità burocratiche e regimi fiscali che cambiano repentinamente, al crescere del fatturato. Anche solo per adempiere agli obblighi fiscali e burocratici devono pagare ancora. La loro vita è assorbita da oneri continui.

IL CATTIVO ESEMPIO DELLA SPESA PUBBLICA

Il ceto medio produttivo vede anche restringersi l’area dei servizi erogati a suo favore. Infrastrutture, acqua, energia, sanità, formazione sono meno efficienti ed efficaci. Eppure, le spese per consulenze, gli stipendi dirigenziali del pubblico e del para-pubblico, gli affidamenti diretti d’incarico e di appalto aumentano per quantità, non per qualità. Il risultato è che la fascia di reddito tra i cinquanta e i centotrentamila euro circa si sente accerchiato. E in più ha una capacità di spesa familiare reale simile a quella di un insegnante. Può tranquillamente arrivare a ottantamila euro di spese tra tasse, spese obbligatorie, di aggiornamento. Sulla carta sono ricchi, nella realtà coltivano gastriti. La loro produttività e creatività è falcidiata dagli obblighi e dagli oneri. Il motore di chi può garantire un futuro più ricco e benestante all’intera comunità è ingolfato.

IL CETO MEDIO HA PESO ELETTORALE, VA DIFESO

L’approccio alla tassazione va cambiato, se vogliamo un futuro. I grandi patrimoni sfuggono alla solidarietà nazionale. I poveri non possiamo far altro che aiutarli. Il ceto medio va sostenuto. Lo Stato deve guardare meglio alle curve di indifferenza del prelievo fiscale. Occorrono più tutele per il ceto medio e anche maggiore rispetto per il ruolo sociale che riveste. Se commette errori deve avere la possibilità di recuperare. Il rientro eventuale nella regolarità fiscale e contributiva non può dipendere dalle aste giudiziarie che distruggono ricchezza. Ma c’è anche una ragione politica: il ceto medio, se consapevole della propria forza elettorale, può finalmente pretendere un cambiamento che garantisca un futuro migliore per sé stesso e anche per lo sviluppo del Paese.

Aggiornato il 25 settembre 2025 alle ore 16:27