
L’abuso resta, la proprietà è violata, ma il fisco chiede il conto.
Il caso Leoncavallo a Milano racconta in modo emblematico il paradosso italiano: un immobile occupato abusivamente per mezzo secolo non viene sgomberato, ma tassato con cartelle per 805mila euro di Tari non pagata. Non importa che la proprietà sia stata violata, che i legittimi titolari abbiano perso l’uso del bene, che per decenni vi si siano svolte attività economiche senza titolo. Per l’amministrazione, l’abusivo non è un soggetto da allontanare, è un contribuente da tassare. È l’immagine perfetta di uno Stato che abdica al suo compito primario – proteggere diritti e proprietà – per rifugiarsi nella sola dimensione fiscale.
La contraddizione è crudele: se un cittadino dimentica di pagare due bollette, riceve solleciti, sanzioni e persino pignoramenti. Se un centro sociale non paga la Tari per quattordici anni consecutivi, accumulando oltre 800mila euro di arretrati, viene trattato con pazienza infinita, come se l’occupazione potesse trasformarsi in un contratto implicito. Si dimentica che la Tari è un tributo che presuppone sostanzialmente un titolo d’uso legittimo. Pretenderla da chi non ha mai avuto alcun diritto di occupazione significa legittimare l’abuso con un’imposta, anziché reprimerlo con la legge.
Questa distorsione, tuttavia, non è nata adesso. Dante, nel Purgatorio (Canto XVI), mette in scena Marco Lombardo, un nobile del XIII secolo noto per il suo rigore morale e per la sua indignazione contro i mali del suo tempo. Lo colloca tra le anime degli iracondi: non violenti ciechi, ma uomini che in vita si lasciarono dominare dall’ira politica, poi pentiti. Ed è proprio a lui che il Sommo poeta affida un giudizio tagliente: “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”. Le norme esistono, ma mancano i governanti capaci di applicarle. Allora, come oggi, il problema non è l’assenza di leggi, è piuttosto il fatto che restino lettera morta. E così accade che, davanti a un’occupazione abusiva, invece di ristabilire il diritto di proprietà, l’amministrazione si limiti a spedire cartelle per tributi evasi come se l’abuso fosse un normale contratto.
Ma questo schema non riguarda solo il Leoncavallo. È un vizio sistemico che si ritrova ovunque in Italia. Si pensi alle occupazioni abusive di alloggi popolari: anziché ristabilire la legalità restituendo le case agli aventi diritto, si finisce spesso per chiedere agli occupanti un canone ridotto, di fatto premiando chi si è introdotto senza titolo. Stesso copione per i mercati abusivi: i comuni preferiscono regolarizzare con tariffe minime, fingendo di “incassare qualcosa” in luogo di difendere i commercianti onesti che pagano regole, permessi e imposte.
Un altro esempio lampante è quello delle concessioni balneari: proroghe su proroghe hanno trasformato un regime eccezionale in una rendita perpetua. Qui lo Stato non interviene a ripristinare la concorrenza, ma continua a incassare canoni ridicoli, mantenendo un privilegio per pochi e impedendo l’accesso libero ad altri operatori. Anche in questo caso, si preferisce il flusso fiscale alla tutela della parità di fronte alla legge.
Lo stesso vale per gli abusi edilizi: condoni a ripetizione hanno reso l’illegalità una strategia razionale. Costruire senza permesso non significa più rischiare la demolizione, bensì attendere l’ennesimo condono, pagando un obolo per trasformare l’irregolare in regolare. È la stessa mentalità vista al Leoncavallo: lo Stato non elimina l’abuso, lo tassa.
Tale logica ha effetti devastanti. In primo luogo, trasmette un messaggio chiaro: rispettare la legge è da ingenui, violarla può convenire. In secondo luogo, genera concorrenza sleale: chi paga imposte, affitti, permessi e autorizzazioni deve competere con chi gode di spazi, attività o licenze gratuite o scontate. Infine, erode la legittimità stessa della tassazione: perché pagare tributi quando lo Stato li pretende anche da chi non ha alcun diritto a essere lì?
Il caso Leoncavallo mostra come il potere politico, piegato a convenienze ideologiche, abbia scelto la via della tolleranza selettiva. Invece di garantire la certezza del diritto, ha permesso che l’occupazione diventasse un fatto compiuto, trasformando un abuso in istituzione e un debito in trattativa. È la vittoria della logica dei favoritismi contro l’uguaglianza di fronte alla legge.
La risposta, in realtà, dovrebbe essere semplice: restituire i beni ai legittimi proprietari, liberare il mercato da occupazioni e proroghe, applicare le regole a tutti senza eccezioni. Solo così la tassazione torna ad avere senso, perché poggia su una base di legalità condivisa. Diversamente, come nel caso dell’abuso milanese, diventa l’ennesima caricatura: si esigono i tributi da chi non avrebbe mai dovuto entrare, e si lascia intatto l’abuso che la genera.
Il paradosso, dunque, è più ampio di un centro sociale a Milano: è il ritratto di un Paese che preferisce convivere con l’illegalità purché porti un po’ di gettito, anziché difendere i principi elementari di proprietà, responsabilità e uguaglianza davanti alla legge, ossia uno dei cardini dello Stato di diritto.
Aggiornato il 22 settembre 2025 alle ore 09:55