
Il discorso di Draghi e la conferenza di Bruxelles confermano la vecchia ricetta: più centralismo, più debito, meno libertà.
Si è appena conclusa nella capitale comunitaria la conferenza “Un anno dopo il rapporto Draghi”. L’appuntamento, guidato dal presidente della Commissione Ursula von der Leyen e dall’ex capo della Bce, avrebbe dovuto tracciare la strada verso un’Europa finalmente competitiva. Ha invece mostrato ancora una volta la stessa illusione: credere che la crescita nasca da piani decennali, da debiti condivisi e da regole imposte dall’alto, anziché dall’iniziativa di individui e imprese.
L’intervento dell’ex premier italiano è stato ampio e ambizioso, ricco di dati e di allarmi. Ha ricordato che il modello di crescita europeo si sta sgretolando, che le vulnerabilità aumentano e che l’inazione minaccia persino la sovranità. Ha denunciato i divari con Stati Uniti e Cina in campo tecnologico, i prezzi dell’energia doppi rispetto a quelli americani, l’insostenibilità della scadenza del 2035 per le auto a emissioni zero. Ha inoltre parlato di lentezza decisionale, di processi bloccati, di cittadini delusi. La diagnosi appare spesso corretta, ma la terapia resta sempre la stessa: più fondi comuni, più coordinamento, più regole.
Su queste basi ha articolato tre priorità: colmare il divario di innovazione, rendere la decarbonizzazione compatibile con la crescita, rafforzare la sicurezza economica. Tuttavia, ciascuna di queste linee è stata affrontata con la medesima logica interventista. Sull’innovazione, ad esempio, l’ex presidente del Consiglio propone nuove “gigafabbriche” di intelligenza artificiale, fondi comunitari e programmi in stile Darpa. La ricetta non è quella di liberare risorse private, bensì di concentrare capitali pubblici in grandi progetti decisi da manager nominati dall’alto. È lo schema che l’Europa conosce da decenni: quando lo Stato pretende di guidare la tecnologia, soffoca la creatività che dovrebbe sprigionarsi dal basso.
Quanto al fronte energetico, la diagnosi è impietosa: prezzi troppo alti, domanda in crescita, reti insufficienti. Anche qui la soluzione passa attraverso la creazione di nuovi organismi di coordinamento, appalti pubblici, piani decennali. La liberalizzazione dei mercati e la rimozione dei vincoli che rendono costosa l’energia non vengono prese in considerazione. Si preferisce immaginare un’Europa che acquisti gas in comune, che decida dall’alto i contratti a lungo termine, che sposti quote e incentivi come in un’enorme economia pianificata. Non si riconosce però che i costi alti sono proprio il frutto di questa impostazione: senza un mercato libero dell’energia, ogni riforma si traduce in un boomerang.
La stessa logica dirigista emerge nel settore automobilistico, che costituisce la contraddizione più evidente. Draghi ha ammesso che il divieto di auto tradizionali dal 2035 si fonda su presupposti ormai superati. Eppure, invece di restituire la libertà di scelta a produttori e consumatori, ha ribadito la necessità di mantenere un quadro vincolante, pur con qualche margine di “flessibilità”. Parlare di neutralità tecnologica mentre si impongono scadenze obbligatorie equivale a negare quella neutralità. Così l’Europa finisce per intrappolarsi in un modello che soffoca la concorrenza interna e consegna spazi preziosi ai concorrenti americani e cinesi.
Non meno rivelatore è il capitolo sul debito. Di fronte alle nuove esigenze di spesa – dalla difesa alla transizione energetica – il relatore del rapporto propone l’emissione di debito comune come “passo logico” e invoca coalizioni di Stati volenterosi per accelerare l’integrazione. Eppure, ciò che è logico per la politica non lo è per l’economia. Ogni euro preso a prestito oggi si traduce in tasse domani. Murray N. Rothbard lo ha definito “schiavitù intergenerazionale”: una catena invisibile che vincola le generazioni future per finanziare i programmi di oggi. Presentare il debito come leva per la competitività significa ignorare la lezione della storia: nessuna società si è arricchita indebitandosi a dismisura.
Il discorso ha toccato anche il tema delle regole. Qui l’ex presidente della Bce ha denunciato i costi eccessivi del Gdpr, l’incertezza dell’AI Act, la lentezza delle procedure autorizzative. Tuttavia, la sua risposta non è la libertà, bensì una nuova ondata di regolamentazioni “semplificate”, codici di condotta, regimi speciali. È il paradosso di un’Europa che riconosce il peso della burocrazia e risponde con altra burocrazia.
Sul terreno della difesa, infine, si è invocata maggiore spesa comune, coordinamento sugli appalti, consolidamento delle industrie. Tutto inevitabilmente tradotto in nuove concentrazioni di potere e in minore concorrenza. Come se la sicurezza potesse essere garantita meglio da monopoli pubblici che da una rete di alleanze flessibili e diversificate.
Il punto centrale resta comunque il rapporto da cui tutto ha preso le mosse. Quelle 170 proposte, celebrate un anno fa, continuano a orientare la discussione. Eppure, proprio il loro impianto rivela la radice del problema: la competitività non è frutto di piani calati dall’alto, ma di milioni di decisioni libere prese da individui e imprese. Ogni tentativo di sostituire questo meccanismo spontaneo con la programmazione produce inefficienza e ritardo. Lo dimostra la stessa storia europea: quando la concorrenza tra ordinamenti ha funzionato, l’economia è cresciuta; quando ha prevalso l’uniformazione, l’innovazione si è fermata.
A rendere ancora più fragile il quadro c’è il grande assente del discorso: la questione monetaria. L’inflazione, che erode salari e risparmi, è stata appena sfiorata, quando invece rappresenta la minaccia più seria alla competitività. Ludwig von Mises ricordava che: “L’inflazione è un fenomeno politico deliberato”, ignorarla significa accettare l’impoverimento silenzioso dei cittadini. Parlare di crescita e competitività senza affrontare la moneta equivale a costruire castelli sulla sabbia.
In definitiva, la conferenza non ha offerto soluzioni nuove. Ha ribadito che la strada europea resta quella del centralismo. Si invoca l’urgenza, eppure la si traduce in altri vincoli. Si parla di competitività, salvo poi cercarla nella spesa pubblica. Si pronuncia la parola sovranità, confondendola con l’accentramento dei poteri nelle istituzioni comunitarie. Friedrich A. von Hayek ci ha avvertito: quando lo Stato pretende di concentrare la conoscenza che è dispersa tra milioni di individui, inevitabilmente soffoca l’innovazione.
La vera alternativa non è più Stato, bensì meno. Non debito comune, ma riduzione delle tasse. Non gigafabbriche pubbliche, bensì libertà per le imprese di sperimentare. Non piani vincolanti, ma concorrenza tra idee e tecnologie. L’Europa non ha bisogno di nuove catene dorate, bensì di spazi aperti in cui i cittadini possano creare, innovare e prosperare. Continuare a inseguire l’illusione dirigista significa condannarsi al declino; scegliere la libertà significa restituire al Vecchio continente l’unica vera chance di tornare competitivo.
Aggiornato il 17 settembre 2025 alle ore 12:26