
Dal subcontinente una lezione universale: meno Stato e più mercato significano più crescita e libertà
Da Nuova Delhi arriva in questi giorni una notizia che dovrebbe scuotere anche le Capitali europee: l’India ha approvato una riforma fiscale che semplifica drasticamente il sistema e riduce la pressione tributaria su milioni di cittadini. Due i pilastri: la riscrittura dell’Income Tax Act, che dal 2026 sostituirà la vecchia legge del 1961, e la ristrutturazione della Goods and Services Tax, in vigore già dal settembre 2025, con la riduzione delle aliquote principali a due scaglioni (5 per cento e 18 per cento) e l’applicazione del 40 per cento soltanto su beni di lusso e tabacco, come hanno riportato, tra gli altri, il Financial Times e l’agenzia di stampa Reuters.
Non si tratta di un maquillage tecnico, quanto di un vero cambio di paradigma. Invece di inseguire nuove entrate, come accade di frequente in Europa, il Paese del Gange ha scelto di liberare risorse, lasciandole a disposizione dei cittadini. Significa riconoscere che la ricchezza nasce dal basso, dall’iniziativa individuale e dalla cooperazione spontanea, non da calcoli ministeriali. È un approccio che rompe con il passato dirigista del subcontinente e che lo proietta con maggiore decisione verso un’economia fondata sul mercato.
In particolare, il nuovo codice dell’imposta sul reddito riduce le sezioni da oltre 800 a 536, elimina concetti obsoleti come “assessment year” e introduce procedure digitali, rimborsi automatici e controlli senza contatto diretto con l’amministrazione (Press Information Bureau of India; Times of India). Non è un dettaglio marginale: è la condizione per ridare certezza al rapporto tra Stato e contribuente, in linea del resto con quanto ha osservato Friedrich A. von Hayek, per il quale la libertà richiede regole generali e prevedibili, non discrezionalità amministrativa. In questo senso, la semplificazione fiscale indiana rappresenta una liberazione dal potere arbitrario della burocrazia.
Quanto ai costi, le stime tecniche – riportate dal Financial Times – indicano un impatto limitato a circa 480 miliardi di rupie di minori entrate. Si tratta in realtà di una perdita solo apparente, come del resto già nel Settecento Richard Cantillon aveva chiarito, sottolineando che la tassazione non crea ricchezza, la trasferisce e la distorce. Ridurre il prelievo significa restituire risorse a chi sa investirle meglio, cioè famiglie e imprese, con effetti moltiplicatori sull’intera economia. Non a caso – come riferito dalla citata Reuters – il presidente di Maruti Suzuki, il principale costruttore automobilistico indiano, ha definito la ristrutturazione del GST una “riforma enorme”, capace di rafforzare la competitività e rilanciare la domanda interna.
Naturalmente non mancano critiche. Nel settore tessile si teme che l’aliquota al 18 per cento sui capi più costosi possa penalizzare la domanda, con le piccole imprese manifatturiere che chiedono attenuazioni per il lavoro su commissione. Ma difendere ogni comparto con norme ad hoc equivale a bloccare il dinamismo sociale. Una società aperta deve accettare la riallocazione continua delle risorse, perché è da questo processo che nascono l’innovazione e il progresso.
Il confronto con l’Occidente è inevitabile. Mentre l’India semplifica e taglia, in Europa e negli Stati Uniti cresce la tentazione di introdurre nuove tasse, spesso sotto il vessillo della sostenibilità ambientale o della redistribuzione. Le discussioni sul ritorno di un’imposta patrimoniale, sull’inasprimento delle imposte di successione o su nuovi balzelli “verdi” mostrano una visione miope: si crede di poter risolvere i problemi con ulteriore prelievo, dimenticando che ogni euro sottratto al cittadino riduce la sua capacità di risparmiare, investire, crescere.
A quanto detto, è il caso di aggiungere che gli effetti della riforma indiana non si limiteranno ai consumi: l’abbassamento della pressione fiscale renderà più attraente investire nel Paese, aumentando la competitività rispetto ad altri mercati emergenti. Multinazionali e imprese estere troveranno condizioni meno penalizzanti, mentre il tessuto produttivo interno potrà creare nuova occupazione. È questo il vero motore dello sviluppo: non programmi pubblici di spesa, bensì la libertà di intraprendere.
La lezione del gigante asiatico trova riscontri anche nella storia europea. Nei momenti di maggiore prosperità – dall’Inghilterra della Rivoluzione Industriale alla Germania post-bellica – la crescita è fiorita non grazie a nuovi tributi, ma grazie a contesti di minore interferenza politica. Quando lo Stato si ritira, emergono energie sopite; quando invece si espande, soffoca l’iniziativa. È una dinamica che vale ieri come oggi, e che l’India sembra avere compreso meglio di molte democrazie occidentali.
Fino a pochi decenni fa il Paese era intrappolato in un’economia pianificata, segnata da inefficienze e burocrazia. Oggi sceglie di affidarsi alla creatività dei propri cittadini. Non è una rivoluzione compiuta, né priva di contraddizioni, indica invece una direzione precisa: meno Stato e più società. È un messaggio che il vecchio continente dovrebbe ascoltare, se non vuole restare prigioniera di un declino fatto di vincoli, promesse mancate e crescente sfiducia.
Ecco perché parlarne ora è particolarmente importante. L’autunno è la stagione in cui si scrivono le manovre finanziarie: in Italia il dibattito si concentra su come reperire nuove entrate, mentre dalla nazione di Bharat giunge la dimostrazione che esiste un’alternativa. Tagliare tasse e burocrazia non è un azzardo, è un investimento sulla vitalità della società.
Per questo, osservare la scelta del colosso dell’Asia meridionale nel momento in cui il nostro Paese decide le proprie priorità significa ricordare che la via della prosperità non passa da ulteriori sacrifici imposti, bensì dalla libertà restituita ai cittadini.
Aggiornato il 10 settembre 2025 alle ore 16:33