Usa: il debito pubblico, il ruolo dei dazi e le implicazioni geopolitiche

L’Occidente come “Fort Apache”?

L’azione dei dazi avviata da Donald Trump riprende una storia già vista nella Grande depressione con effetti negativi sia sugli Usa che sulle economie collegate. I dazi negli Usa vennero introdotti per la prima volta nel 1789 con il Tariff Act che per quasi un secolo, almeno fino alla Guerra civile (1861-1865), prevedeva i dazi che erano la principale e quasi unica fonte di entrate per il Governo federale. Verso la fine dell’Ottocento aumentarono i sostenitori di un “libero mercato” internazionale, soprattutto negli stati del Sud e fra i Democratici. Dal 1913, con l’introduzione di una tassa sul reddito, i dazi non furono più così fondamentali. Seguì una fase di apertura doganale, interrotta dal crollo dei mercati finanziari del 1929 e dalla profonda crisi economica che ne seguì: nel 1930 il presidente repubblicano Herbert Hoover approvò lo Smoot-Hawley Tariff Act (dal nome dei due primi parlamentari firmatari), che reintroduceva dazi generalizzati e provocò immediatamente reazioni da parte di molti Stati europei, fra cui Spagna e Francia: gli scambi commerciali fra Stati Uniti ed Europa si ridussero di due terzi nel giro di tre anni. Rispose anche il Canada, imponendo dazi su 16 prodotti che valevano un terzo delle esportazioni degli Stati Uniti. Secondo alcuni storici tutti quei dazi reciproci contribuirono a peggiorare la crisi economica statunitense, nota come Grande depressione, e in Europa causarono il fallimento di alcune banche e una crisi economica che avrebbe favorito l’ascesa di ideologie estremiste.

Fecero anche crollare la popolarità di Hoover, che non fu rieletto: tra il 1934 e il 1939 il suo successore, il democratico Franklin Delano Roosevelt, firmò trattati di libero scambio con 19 Paesi rilanciando l’economia Usa che diventò dopo la Seconda guerra mondiale il traino per il mondo intero .Nel 1995 si creò la World Trade Organization che comprende ora il 97 per cento del commercio mondiale di beni e servizi ed ha come obiettivi l’abolizione o per lo meno la riduzione delle barriere tariffare al commercio internazionale e ha fortemente favorito, in negativo, la globalizzazione che gli Usa hanno perseguito troppo spesso evadendo i trattati internazionali. Oggi l’azione di Trump in un contesto geopolitico in profonda evoluzione deve essere vista nel contesto dell’economia Usa del suo profondo debito con una previsione di 30mila miliardi di dollari rispetto ai 77mila miliardi di dollari del totale mondiale. Le stime variano leggermente ma il debito americano sta crescendo più velocemente di quello globale contribuendo alla crescita di quest’ultimo che tocca maggiormente i Paesi occidentali rispetto ai Brics ed a quelli riuniti all’incontro del Shanghai Cooperation Organisation (Sco) per ridefinire le regole globali di cooperazione contro cui di fatto vanno i dazi di Trump. Al momento del suo insediamento come presidente degli Usa, Donald Trump ha dovuto confrontarsi con il crescente debito pubblico americano che si è innalzato specie dopo la crisi di Lehman Brothers con previsioni di peggioramento come abbiamo visto. Gli interessi del debito sono esplosi durante la presidenza di Joe Biden passando dai 530 miliardi di dollari del 2020 a un ammontare che supera oggi i mille miliardi di dollari e che sembra crescere in modo iperbolico; gli Usa spendono di più di quanto incassano ed oggi nei primi mesi del 2025 a fronte di 3.500 miliardi di dollari di incassi hanno un debito di quasi 4.800 miliardi di dollari.

Questo dissesto finanziario da tempo previsto per chi lo voleva vedere è stato coperto durante le elezioni presidenziali in cui i democratici sembra che puntando su inadeguate figure come Biden da tempo sofferente e la debole Kamala Harris abbiano, volutamente, perdere per lasciare il “lavoro sporco” a Trump il quale ha dovuto prendere il toro per le corna con il rischio di essere incornato da un debito difficilmente comprimibile. A fronte di questo debito che sta crescendo in modo più che proporzionale a quello degli incassi l’azione di Trump è stata quella di abbattere la spesa pubblica e di aumentare con i dazi le entrate fiscali che grazie a questa manovra sono cresciute ma l’avvio dei dazi ha avviato un effetto sulla spesa pubblica e sulla spesa delle famiglie; il deficit commerciale degli Usa si è ridotto del 16 per cento per la prima volta da decenni ed ha avuto un andamento regressivo come da decenni non si verificava. Le finalità del Governo Usa sono chiare ma i mezzi scelti e le loro conseguenze non sembrano in grado di sostenere la spinta alla riduzione del deficit; è utile capire la dinamica dell’esplosione del debito e quanto questo possa essere contenuto dai programmi dell’amministrazione Trump. Recentemente è stato portato all’approvazione della camera ma non ancora del senato il One Big Beautiful Bill Act che prevede una riduzione delle imposte tale da agevolare le piccole e medie imprese del settore terziario ma che comporta innalzamento del debito ed una riduzione della spesa sociale a scapito della classe medie e delle classi più deboli. Con questo atto aumenta la disuguaglianza tra le più alte degli Stati occidentali perché il 10 per cento della classe elevata vede aumentare la sua ricchezza del 2 per cento mentre il 10 per cento delle classi più disagiate vede aumentare la sua povertà del 4 per cento.

L’altra azione di Trump funzionale a raggiungere un equilibrio, anche con i dazi, è quella di disincentivare la delocalizzazione selvaggia che dagli anni novanta ha privato l’economia Usa delle attività manifatturiere che sono crollate a scapito della finanza e del settore dei servizi che hanno visto innalzare l’occupazione rispetto a quella manifatturiera passata dal 50 al 10 per cento. Anche questa finalità è condivisibile ma i mezzi diventano troppo deboli per realizzare questo obiettivo in tempi stretti per evitare la recessione e favorire il ritorno della manifattura per difficoltà strutturali. Riportare la manifattura in Usa non è uno scopo raggiungibile in breve ma forse solo nel lungo tempo ma come scriveva John Maynard Keynes, nel lungo tempo siamo tutti morti; la reindustrializzazione comporta la costruzione di strutture produttive che richiedono tempi lunghi di attesa in un contesto globale di rapida evoluzione che potrebbe rendere diseconomiche quelle iniziative imprenditoriali. Una voce determinante nell’avvio di questo processo è la mancanza di mano d’opera specializzata che non si crea ancora una volta in tempi lunghi e sempre contrastata dalla crescita professionale ed in termini di minori costi delle filiere produttive avviate in altri Paesi con il rischio che il punto di pareggio nel lungo tempo non si realizzi mai e con le conseguenze di dissesti economici collegati.

Dal punto di vista finanziario e degli equilibri economici i dazi finiscono nei fatti sui maggiori prezzi delle merci importate e quindi sulla capacità di acquisto delle classi medie e povere del paese che sono cresciute molto a favore delle classi con maggiori redditi creando una forte disuguaglianza la più alta fra i Paesi industrializzati; va ricordato che nei millenni di storia dell’uomo le civiltà-società sono sempre e solo crollate per guerra o per classe e questo per gli Usa sarebbe un forte ammonimento. L’aumento dei prezzi al consumo contribuirebbe ad aumentare l’inflazione e con questa i tassi di interesse sui Treasury Bond americani che sono già alti spingendo ancora più in alto la spesa per interessi; il quadro finanziario deve scontare la debolezza del dollaro che aumenta i prezzi delle merci scambiate e la difficoltà crescente e collocare i Tb sul mercato internazionale che comincia a considerarli più pericolosi e comunque pagare i debiti emettendo altri debiti si sprofonda nel caos. Dal punto di vista delle relazioni internazionali con rispetto ai Paesi alleati ed agli altri rappresenta un segno di guerra commerciale che si sostituisce a quella militare per i cui preparativi gli Usa continuano a spendere in modo non più sostenibile, con la strategia della guerra che li ha sempre ispirati sono arrivati a creare la più alta spesa militare al modo pari al 50 per cento di quella globale e le spese conseguenti, basti pensare che negli ultimi venti anni il Governo Usa per la guerra al terrore ha speso 8mila miliardi di dollari e che attualmente almeno 170 Paesi nel mondo, a vario titolo, ospitano un totale di circa 642 basi nel mondo.

Ora l’occupazione militare di gran parte del mondo è stata il frutto di una strategia di dominanza non solo bellica ma finanziaria ed economica verso tutti i Paesi del mondo a partire dalla caduta del muro di Berlino nel nuovo secolo in modo più evidente verso il Medio Oriente; in quegli anni la strategia della forza militare e finanziaria con il dollaro ha favorito una globalizzazione negativa che sembrava non avesse più fine e forse in quel contesto i dazi di Trump avrebbero avuto uno spazio ed un’incisività superiore. Oggi con l’avvio dei Brics e con la Sco (Shanghai Cooperation Organisation) si mostra la debolezza di un paese che grande come prima non può più diventare perché il mondo da unipolare e diventato multipolare e le azioni di Trump con i dazi si riflettono contro isolando gli Usa ancora di più.

La mossa recente di aumentarli verso l’India ha messo il paese nella vicinanza della Cina e della Russia e quindi aumentando la potenza di risposta all’occidente dei Brics. Il rischio di queste mosse affrettate di Trump riflettono un’idea del mondo che non esiste più ed i dazi contro l’Europa la allontanano nel medio-lungo tempo verso mercati più favorevoli e rendono il mondo occidentale in emergenza sociale-economica-finanziaria-politica sempre più simile a un Forte Apache, dal titolo del film di John Ford in cui il termine testimonia la sindrome di “Fort Apache” usata per descrivere un approccio alla sicurezza basato su una fortificazione difensiva che non risolve il problema delle minacce esterne sperando di non fare la fine dei difensori del forte di fronte al testardo colonnello Oswald Turner (Henry Fonda) che oggi potrebbe essere rappresentato da Donald Trump.

(*) La seconda foto è tratta da una scena del film Il massacro di Fort Apache (Fort Apache) di John Ford

Aggiornato il 09 settembre 2025 alle ore 11:09