Piano casa: lo Stato promette, la libertà mantiene

Non servono nuovi piani centralizzati, ma fiducia nella proprietà privata e regole certe per il mercato

Come riportato dagli organi di informazione, da Rimini, in occasione del Meeting di Comunione e Liberazione, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato un piano casa a prezzi agevolati per le giovani coppie, “perché senza casa non si può costruire una famiglia”. Un progetto che dovrebbe prevedere mutui agevolati, edilizia calmierata e il rilancio del “Piano casa Italia” già inserito nella legge di bilancio 2025. Al suo fianco, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, pronto a fare da regista a un pacchetto di misure che – nelle intenzioni – dovrebbe aiutare i giovani a emanciparsi.

Ma è proprio qui che si rivela il nodo. Ancora una volta la politica immagina di risolvere un problema reale –l’accesso all’abitazione – con la ricetta più vecchia e fallimentare: nuovi fondi pubblici, nuove garanzie statali, nuove formule di “social housing”. In buona sostanza, la casa viene trattata come un bene che deve essere distribuito dall’alto, con prezzi decisi da piani centrali, in un’illusione che la storia ha già più volte smentito e condannato.

In Italia, appare ormai acquisito, gli immobili abitativi non mancano. Al contrario, il nostro Paese vanta una delle più alte percentuali di proprietà privata d’Europa. Esiste infatti un immenso patrimonio immobiliare frutto di generazioni di risparmiatori che hanno investito i propri sacrifici nel mattone. Eppure, decine di migliaia di abitazioni restano sfitte o ritirate dal mercato. E tanto non perché non ci sia domanda, ma perché lo Stato ha reso troppo rischioso affittarle: tasse esose, giustizia lenta, occupazioni abusive tollerate o addirittura protette. A ciò si sommano 86.000 alloggi popolari non assegnati, bloccati dall’incapacità dell’apparato pubblico di ristrutturarli e gestirli. Il paradosso è evidente: non c’è scarsità di abitazioni, c’è piuttosto carenza di libertà!

Ogni nuovo piano casa ripete sempre gli stessi errori. Negli anni Cinquanta e Sessanta, con quello INA-Casa e con il sistema Gescal, si promisero soluzioni rapide e universali. Il risultato, a distanza di decenni, sono quartieri nati come simbolo di progresso e presto degenerati in luoghi di degrado, isolamento e dipendenza dallo Stato. Gli Iacp, trasformati in enti elefantiaci, hanno accumulato inefficienze e lasciato dietro di sé un patrimonio spesso fatiscente. L’illusione che la casa potesse essere garantita come diritto statale ha prodotto sprechi e clientelismo, non sicurezza e autonomia.

La via alternativa è chiara: liberalizzare davvero il settore delle locazioni, oggi paralizzato da vincoli che ne soffocano la vitalità. Milioni di proprietari potrebbero immettere sul mercato i loro immobili se avessero certezze sul diritto e regole semplici. Non servono nuovi piani miliardari né modelli imposti dall’alto: serve la libertà di scegliere. I contratti calmierati possono costituire uno strumento, ma non devono diventare l’unico canale ammesso.

Il vero salto di qualità consiste nel lasciare che canoni, durate e condizioni siano fissati unicamente dal mercato, dall’incontro diretto tra domanda e offerta, senza gabbie burocratiche e senza intermediazioni che, sotto l’apparenza della mediazione concertata, finiscono per agire come prolungamenti della mano pubblica, riducendo la libertà contrattuale a un dirigismo mascherato.

Inoltre, un quadro fiscale meno oppressivo – con l’abolizione dell’Imu sugli immobili locati – darebbe subito convenienza a rimettere in circolazione migliaia di appartamenti oggi inutilizzati. Nondimeno, la fiscalità, da sola, non è sufficiente: senza la garanzia che in caso di morosità l’immobile torni rapidamente nella disponibilità del proprietario, nessun incentivo sarà credibile. È dalla combinazione di regole semplici, giustizia rapida e libertà contrattuale che nasce la differenza tra un sistema paralizzato e un mercato capace di rispondere alle esigenze reali. Liberalizzare significa restituire al mercato la sua funzione autentica: mettere in relazione bisogni e risorse senza che sia la politica a decidere chi deve dare, a chi e a quale prezzo.

Non si tratta di inventare nuove formule. L’esperienza internazionale mostra che laddove la proprietà privata è tutelata e la libertà contrattuale rispettata, l’offerta abitativa cresce e si diversifica. Dove invece prevale lo statalismo, si creano ghetti, quartieri dormitorio e un apparato pubblico sempre più ingolfato. In Italia non serve un “piano” di edilizia sociale: serve restituire spazio al mercato e alla responsabilità individuale.

Il linguaggio con cui vengono presentati questi progetti – partenariati pubblico-privato, rating sociale, housing inclusivo – non cambia la sostanza. Si tratta di formule burocratiche che mantengono al centro l’intervento politico, con la conseguenza di ridurre la libertà di scelta e di alimentare dipendenze. Ogni calmierazione dei prezzi soffoca l’offerta, ogni vincolo imposto dall’alto allontana investitori e proprietari.

Se davvero si vuole aiutare le giovani coppie, non serve l’ennesimo piano nazionale che promette soluzioni future: occorre consentire ai cittadini di usare i propri beni senza paura e senza ostacoli. La casa non deve essere un dono dello Stato, ma il risultato naturale dell’incontro tra chi ha un bene e chi lo cerca. Solo in un contesto di libertà le famiglie potranno progettare il futuro con stabilità, senza attendere la benevolenza di decreti e fondi speciali.

Il vero piano casa, allora, non si scrive nei ministeri: nasce dalla rimozione delle catene che bloccano il mercato. È lì che si trova la possibilità di moltiplicare le abitazioni disponibili, abbattere i costi e offrire risposte rapide a chi vuole costruire una famiglia. Lo statalismo promette, la libertà mantiene.

Aggiornato il 05 settembre 2025 alle ore 09:48