Noi o lo Stato

Ad aprile 2025 il debito pubblico italiano ha raggiunto un nuovo record: 3.063,5 miliardi di euro. Secondo i calcoli di Bankitalia, rapportata ai 58,9 milioni di abitanti, questa cifra equivale a circa 52mila euro per cittadino. La tendenza è chiara: dall’inizio del 2025 il debito ha continuato a salire, con l’unica eccezione del calo di dicembre 2024, da oltre dodici mesi, dunque, l’Italia si mantiene stabilmente sopra i 3mila miliardi di euro. Pertanto, anche al netto delle riserve liquide del Tesoro, la soglia psicologica dei 3mila miliardi è ormai prossima a essere superata. La crescita di aprile è stata trainata soprattutto dal fabbisogno delle amministrazioni pubbliche, con spese superiori alle entrate. Inoltre, a ciò si è aggiunto l’aumento delle riserve del Tesoro e l’impatto della voce residuale “altro”, che include rivalutazioni dei titoli indicizzati all’inflazione, scarti e premi all’emissione, oltre alle variazioni dei cambi. Nonostante i tentativi di favorire la detenzione domestica, la quota di titoli in mano a investitori esteri è tornata a crescere nel marzo 2025. Questo dato segnala una persistente esposizione dell’Italia alle oscillazioni dei mercati finanziari internazionali, con implicazioni sulla stabilità del costo del debito. Il rapporto debito-Pil sfiora il 140 per cento, calcolando un Prodotto interno lordo 2024 di 2.192 miliardi di euro.

Quindi, si tratta del secondo valore più elevato dell’area euro, dopo la Grecia, e del quarto a livello mondiale dopo Giappone, Eritrea e Venezuela. In termini assoluti, l’Italia è il terzo Paese più indebitato al mondo, dietro soltanto a Stati Uniti e Giappone. La differenza è che, mentre Washington e Tokyo possono contare su un forte controllo sulla propria valuta e banche centrali con margini d’intervento più ampi, Roma resta vincolata alle regole dell’Eurozona. Il servizio del debito rappresenta un onere significativo: circa 80 miliardi di euro all’anno vengono spesi in interessi. Il tasso implicito medio si colloca vicino al 3 per cento, un valore inferiore al tasso di nuova emissione (3,41 per cento nel 2025), comunque in crescita rispetto agli anni passati. Senza la zavorra del debito, l’Italia registrerebbe un avanzo primario, ovvero maggiori entrate rispetto alle spese correnti e la pressione degli interessi annulla questo margine, confermando la centralità della variabile debito nella politica economica nazionale. Il nodo cruciale resta la sostenibilità nel medio periodo, un debito al 140 per cento del Pil non è insolito a livello globale, ma in assenza di una crescita robusta e di politiche di bilancio coerenti, la traiettoria italiana rischia di consolidare un livello di esposizione strutturalmente fragile. In questo scenario, la sfida non è solo ridurre l’indebitamento, ma garantire che la gestione del debito rimanga compatibile con la stabilità finanziaria e con gli obiettivi di crescita dell’economia. Per far tutto ciò non si può non tenere sotto controllo la spesa pubblica, imponendo una maggiore trasparenza riguardo a come viene utilizzata. Pertanto, bisogna implementare un serio monitoraggio su quante opere pubbliche in Italia vengono costruite ogni anno e su quante sono state realizzate nell’ultimo decennio, specificandone il valore. Queste informazioni sono fondamentali per il cittadino, il quale ha il diritto di riceverle, non solo per il tanto decantato principio della trasparenza, ma anche perché solamente in questo modo potrà accedere a dei dati per “conoscere per deliberare”, come affermava nella sua celebre massima Luigi Einaudi.

Purtroppo, ai fatti, sappiamo quanto spendiamo, ma non sappiamo cosa riusciamo effettivamente a realizzare con la spesa pubblica, determinando di conseguenza un paradosso che fotografa l’ennesima zona d’ombra della gestione italiana delle risorse pubbliche. Invero, compiendo un’analisi storica, la mancanza di effettiva trasparenza della spesa pubblica non esisteva dopo l’Unità d’Italia, infatti, il Ministero dei Lavori pubblici avviò un monitoraggio sistematico delle opere realizzate, pubblicando regolarmente i dati su spesa e risultati conseguiti. Nel 1925 il Ministero delle Finanze ricostruì l’intera serie storica 1862-1924, mentre dal 1926 fu l’Istat, in collaborazione con i ministeri, a rilevare periodicamente le informazioni. Questa prassi si è interrotta bruscamente nel 2004, quando l’Istat sospese la rilevazione delle opere pubbliche, giustificando la scelta con “difficoltà nel rispetto delle scadenze” e con la volontà di ridurre il carico burocratico sulle stazioni appaltanti e da allora il buio completo. Al punto, che conosciamo con precisione le opere realizzate nel XIX secolo, ma non quelle compiute negli ultimi quindici anni. Nel prosieguo della storia italiana, le opere pubbliche sono state al centro di numerose inchieste giudiziarie, da Tangentopoli in poi, la magistratura ha portato alla luce episodi di corruzione, ma le condanne definitive sono rimaste poche e i recuperi erariali minimi.

Il vero problema, tuttavia, non è tanto la corruzione in sé – per ogni euro illecito si stima che lo spreco “legale” sia di almeno trenta, se non cinquanta o cento. Lo Stato, infatti, può destinare somme enormi a progetti di dubbia utilità, purché formalmente approvati come “di interesse pubblico”. Il risultato è che, a differenza della spesa privata, non viene mai richiesto di dimostrare se un’opera valga davvero più del suo costo, soprattutto in questo momento storico in cui ci siamo indebitati per diversi miliardi di euro per attuare il cosiddetto Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), di cui peraltro non conosciamo il tasso di interesse, se non 20 giorni prima di ricevere dall’Unione europea la somma prevista, peraltro senza neanche poterla più rifiutare. Un confronto con la Francia è illuminante, nel decennio 2003-2012, Parigi ha speso in media 13,5 miliardi l’anno per infrastrutture di trasporto, a fronte dei 17,8 miliardi spesi dall’Italia nello stesso periodo: +32 per cento in valore assoluto, +43 per cento in rapporto al Pil. Eppure la Francia è un Paese più esteso dell’80 per cento, con reti ferroviarie e stradali di dimensioni doppie rispetto a quelle italiane. In termini di fabbisogno infrastrutturale, l’Italia avrebbe dovuto spendere circa la metà dei francesi, non un terzo in più. Altresì, tenendo conto delle difficoltà orografiche, che possono giustificare un rincaro del 30 per cento, la spesa “razionale” italiana dovrebbe attestarsi intorno ai 9 miliardi l’anno. Invece ne spendiamo quasi 18. L’eccesso è pari a 9 miliardi annui: 90 miliardi nel decennio e circa 200 miliardi dal 1992, anno di Tangentopoli.

A questi 200 miliardi di sprechi va sommata la spesa per interessi sul debito emesso per finanziarli: circa 115 miliardi. Il conto finale sfiora così i 315 miliardi, pari a un terzo dell’extra-debito italiano rispetto ai parametri di Maastricht. Una cifra che rende evidente come la cattiva gestione della spesa pubblica non sia soltanto un problema etico o giudiziario, ma una delle cause strutturali della fragilità economica del Paese. L’Italia, dunque, non difetta di risorse, ma di trasparenza e razionalità nell’impiego delle stesse, perché un monitoraggio regolare delle opere pubbliche, come avveniva fino al 2004, non sarebbe un fardello burocratico ma un atto di responsabilità democratica. Infatti, senza dati certi, i cittadini non possono valutare l’efficacia delle scelte compiute, né i decisori politici possono essere chiamati a rispondere delle proprie decisioni. In sostanza, riprendere la tradizione statistica interrotta e misurare i risultati concreti della spesa pubblica è l’unico modo per trasformare l’enorme fiume di risorse in infrastrutture davvero utili al Paese. Se quanto finora esposto, il messaggio del titolo di questo articolo, non rimarrà una semplice boutade provocatoria, ma uno conflitto inevitabile fra i cittadini e lo Stato.

Proprio in riferimento a questa ultima considerazione, riporto di seguito una arguta analisi, condita di un raffinato e sottile sarcasmo del pungente intellettuale Leo Longanesi, il quale in riferimento allo spreco del denaro dei contribuenti italiani affermava: “Si, lo so: so che non bisogna indebolire lo Stato; so che lo Stato è un principio, un’idea o quel che volete d’altro; so che lo Stato lo abbiamo comperato già fatto, su misura, a doppio petto, da Georg Wilhelm Friedrich Hegel; so che lo Stato è al di sopra di noi, e noi, bene o male, siamo lo Stato; so tutto questo, ma io vi dico, cittadini, che è giunta l’ora di fare i conti con lo Stato e di vedere se, davvero, non si possa fare a meno di Lui. E allora? Allora come possiamo difenderci da questo Stato che amareggia la nostra esistenza? Io ci ho pensato a lungo, cittadini, ho trascorso notti insonni, tormentate dal dubbio, dallo sconforto, dalle paure; ho sentito la voce cavernosa dello Stato Etico e quella flautata della Libertà; ho udito la grandine totalitaria contro il vetro della finestra, ed ho sognato Tomaso Campanella e Charles Fourier, e Michail Bakunin che rincorreva Karl Marx; ho trascorso, ripeto, notti interminabili, chiuso in un tunnel senza uscita. Ma oggi, io vi dico, cittadini, che è giunta l’ora della grande riscossa; io vi dico che non dobbiamo più pagare le tasse: se lo Stato spende, noi risparmieremo”.

“Cui prodest?”

Aggiornato il 04 settembre 2025 alle ore 11:43