
Anche i più ingenui e sprovveduti si rendono conto che, oltre ai costi dei vari conflitti, noi italiani dobbiamo continuare a subire l’assedio dei poteri finanziari: aspettano da almeno trentatré anni un governante che bruci ai cittadini pensioni e risparmi. E che l’Italia sia patrimonialmente a rischio lo hanno avvertito anche i migranti più operosi: forse hanno tentato di mettersi in regola pagando tasse e contributi, poi anche loro hanno capito che conviene lavorare abusivamente, evadere le tasse per godersi altrove i guadagni. Sono tanti anni che ci sentiamo ripetere come in Italia non convenga investire, che le tasse servono per allungare l’agonia dell’Inps e per allontanare lo spettro del falò dei risparmi.
L’assedio e i condizionamenti sono nati con la caduta della Prima Repubblica, quando la nuova classe dirigente italiana ha in maniera compatta predicato la privatizzazione di ogni comparto pubblico. Usando quella voglia d’efficienza che, secondo i detrattori del vecchio regime, non sarebbe stata tra gli obiettivi di padri costituenti e loro eredi sino al 1992.
Abbiamo più volte ricordato come la politica, i partiti, abbiano il ruolo principe di “corpo intermedio”: ovvero mediare tra popolo e potere. Ma, terminata l’esperienza consociativa della Prima Repubblica, che secondo i vari detrattori abusava in strumenti partecipativi e rappresentativi per creare clientele, è man mano cresciuta la disaffezione dell’elettorato verso la politica, il voto. Un crescendo che ultimamente ha toccato vette d’astensione inimmaginabili decenni fa. Questo perché il popolo avrebbe preso coscienza di come vari rappresentati in Parlamento non siano equidistanti, e nel ruolo di medietà tra potere e popolo, anzi si dimostrino in troppi casi totalmente a servizio del potere: giustificando come liberismo il loro servire potere, multinazionali, poteri bancari europei e occidentali, nonché le personalità più influenti del Wef di Davos e del Gruppo Bilderberg.
Di fatto dal 1992 ad oggi i paesi mediterranei europei sono assurti ad aree di sperimentazione: le cosiddette “democrazie bancariamente protette” equivalenti delle “democrazie militarmente protette” nordafricane. Così abbiamo visto fallire la Grecia. Dalla recente esperienza ellenica abbiamo appreso come si possa convincere uno stato ed un popolo a rinunciare al proprio territorio, ad ogni patrimonio in danaro, immobili, isole, noli, pensioni. Una manovra a tenaglia che, con maggiori difficoltà rispetto alla Grecia, più volta è stata invocata dai cosiddetti tecnici contro l’Italia e gli italiani. Quante volte negli ultimi vent’anni abbiamo sentito dire dai “salvatori dell’Italia” che necessiterebbe bruciare risparmi e pensioni, per convincere gli italiani a liberarsi di tutto per non avere più creditori alla porta. E ci vuole un economista a o un banchiere per partorire l’idea che nessuno chiede soldi a barboni e soggetti in povertà assoluta? Ci vuole un genio per dirci che se diventassimo tutti incapienti i poteri finanziari globali ci lascerebbero in pace?
Sta di fatto che, quando venivano dette queste boiate, ben condite da dati e statistiche, soprattutto in luoghi simbolo del dialogo tra economia e politica, ad applaudire in prima fila c’erano dirigenti, magistrati, accademici e firme del servizio pubblico televisivo.
Il reset previdenziale
Nel tempo s’è così radicato il convincimento popolare che i politici predicherebbero il bene del popolo sotto elezioni per poi mettersi, una volta eletti, a servizio dei vari potentati. Oggi che la coperta è più che mai corta, anzi siamo prigionieri in una sorta di stanza con mura che si chiudono meccanicamente (vecchia tortura riservata ai signori), l’operazione a tenaglia torna a fare capolino sui nostri destini: la privatizzazione di Inps e Inail abbinata al falò dei risparmi. Perché solo se venissero bruciati risparmi e pensioni si potrebbe mettere l’Italia nella stessa situazione della Grecia, varando quel reset del Belpaese auspicato in certi salotti europei.
Ovviamente questi reset sono possibili in periodi eccezionali (quando sono in corso guerre, pandemie e carestie) e con la complicità della classe dirigente di stato e delle grandi aziende.
Per bruciare le pensioni ed ogni paracadute previdenziale necessita che Inps e Inail possano fallire, quindi che vengano totalmente privatizzate: potrebbero anche essere vendute ai grandi privati, quindi ai fondi internazionali, sottraendole al rango di enti pubblici sottoposti alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Ovviamente la pillola da servire al popolo verrebbe indorata con il colpevole rapporto tra numero di lavoratori, che versano effettivamente i contributi, e quello dei pensionati in così enorme aumento da influenzare negativamente la sostenibilità economica del sistema previdenziale italiano. È evidente quanto sia in atto un processo occulto di privatizzazione dei servizi previdenziali. Per realizzare questo percorso di privatizzazione hanno diminuito al massimo i dipendenti di Inps e Inail, al punto che oggi gli enti previdenziali non hanno personale sufficiente a lavorare le pratiche. Poi l’Inps non ha più il controllo interno dei dati tra datore di lavoro e lavoratore, perché ha già esternalizzato ai privati i servizi informatici che incrociano i rapporti. Tutto questo è iniziato in maniera silente qualche decennio fa, con il blocco del turn-over, utile secondo i soliti tecnici a far calare la spesa complessiva dell’Inps. Commercialisti e Caf di fatto collaborano con la previdenza, e metteranno ancora per poco una pezza alla grande macchina previdenziale, che presto verrà venduta ai grandi gruppi multinazionali assicurativi. Per camuffare l’operazione agli occhi della grande utenza, i Caf vengono regolarmente pagati dai cittadini e con soldi pubblici erogati ai patronati, ed inseriti ogni anno in un apposito capitolo di bilancio. Ecco che la privatizzazione previdenziale procede sottotraccia, senza la benché minima protesta. Nel nord Europa ci scherzano pure, dicendo che dovrebbero bruciare le pensioni degli italiani, e perché nel Belpaese figli e nipoti userebbero pensioni, liquidazioni e risparmi di padri e nonni per fare impresa, per aprire negozi e botteghe e fare così concorrenza sleale alle “startup” europee. Da qui la super tracciatura che banche e Agenzia delle Entrate operano su eventuali aiuti in danaro che padri, nonni e parenti darebbero ai ragazzi.
Alle casse di previdenza sono iscritti coloro che esercitano attività professionali, e man mano sono tutte state privatizzate alla spicciolata e a partire dal primo gennaio 1995: tutto è iniziato con le leggi di riordino generale degli enti previdenziali (l’articolo 1, e commi da 32 a 38, della L. 537/1993). La privatizzazione degli enti previdenziali è da considerare tra i primi atti della Seconda Repubblica, infatti il decreto legge in materia è del 1994, ed ha disposto la trasformazione in associazioni o fondazioni di tante casse ed enti con decorrenza dal primo gennaio 1995: così iniziava la dismissione, o svendita, di tutto il patrimonio comprato con i contributi del lavoratori, tutti soldi che negli ultimi trent’anni sono stati poi bruciati in speculazioni o in fondi alquanto dubbi e stranieri. Bruciati capitale e relativi interessi con cui si dovevano pagare le pensioni dei lavoratori italiani, ed è tutto iniziato con la privatizzazione del pubblico impiego: il processo di regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico (ovvero di chi alle dipendenze dello Stato o di altro Ente Pubblico) trasformato in disciplina privatistica caratterizzata dall’utilizzo di contratti collettivi di lavoro. Tutto questo nonostante i principi fondamentali del lavoro dipendente nelle pubbliche amministrazioni risiedano nella Costituzione e nelle norme di diritto pubblico. Ma negli anni ’90 non a caso era nata la campagna stampa contro gli sprechi delle pubbliche amministrazioni, addebitando ogni colpa a risorse umane e rispettiva capacità produttiva. Ne è derivata la risposta della privatizzazione, che ha comportato venisse tutto piegato al diritto privato anche nei rapporti datoriali con la pubblica amministrazione. I rapporti di pubblico impiego sono cambiati contrattualmente nei diritti e doveri, nello stipendio, ferie, assenze, compiti, responsabilità seguendo i “contratti “collettivi nazionali del lavoro. Così dell’Inps sono prima stati svenduti gli immobili, che venivano spacciati per passività, ed oggi serpeggia la cessione ai privati di tutta la previdenza sociale italiana.
Paese di non pensionabili
Pagare le pensioni, e dopo aver bruciato il cospicuo patrimonio immobiliare, costa allo stato circa 10 miliardi di Euro annui, risorse che vengono acquisite dalla fiscalità generale: perché evaporato il mattone, e con le famose cartolarizzazioni, vede oggi lo Stato costretto a ricorrere all’indebitamento, ovvero pagare la previdenza attraverso l’emissione di buoni del tesoro.
A conti fatti, per colpa delle privatizzazioni, l’Inps ha fallito il suo compito di raccogliere e valorizzare i contributi versati per garantire una giusta e congrua pensione. Oggi una stampa malevola, dimenticando il recente passato, addossa ogni colpa alla popolazione inattiva, rea di consumare le risorse dello Stato. Ma l’Inps può fallire solo per decisione politica. Solo chi dirige i governi può decidere di far fare ad un Inps privatizzato la stessa fine che il governo Goria garantiva alla Federconsorzi, ovvero il fallimento e perché una struttura privata non gravi sui crescenti bilanci dello Stato. Così da circa tre decenni ogni governo si trova ad affrontare la scelta di continuare a pagare e rivalutare le pensioni (evidente aggravio sui bilanci pubblici) o fare in modo che l’Inps totalmente privatizzato possa fallire, garantendo quell’apnea pensionistica auspicata da importati salotti occidentali. Ma i governi non sanno che fare, perché i pensionati rappresentano la base elettorale di tutti i partiti, da destra a sinistra passando per il centro. Ma per Bruxelles le pensioni all’italiana sarebbero una sorta di distribuzione di reddito, speso nell’anno corrente per aiutare i parenti in imprese e generare quindi un Pil dopato: da manuale il caso del falegname ultraottantenne pensionato che continua a lavorare abusivamente per aiutare la famiglia del figlio ingegnere disoccupato.
A conti fatti, visto che prima o poi un governo tecnico farà fallire l’Inps, i lavoratori oggi pagano il massimo storico delle aliquote previdenziali e probabilmente non avranno mai una pensione. Va ricordato che prima della previdenza sociale la vita era davvero grama. Le famiglie si prendevano cura di anziani, malati e bambini. Soprattutto le moderne pensioni sono nate sui presupposti gettati dalle corporazioni artigiane e professionali, che dal Medioevo fino a metà ‘800 (quando un po’ in tutta Europa sono nate le moderne previdenze) provvedevano ad assicurare agli associati un vitalizio per gli anni difficili. Il problema di allora è lo stesso di oggi: come faranno senza pensione gli sfruttati del sottoproletariato urbano? Dovranno in futuro contare nuovamente sulle opere di beneficenza della Chiesa o sulla filantropia di pochi benestanti? Con un eventuale fallimento dell’Inps, lo Stato certamente si farà carico di mense, ricoveri e ospizi di vecchiaia. Comunque, la quota sociale rimarrà a carico dello Stato. Il problema del falò delle pensioni sarà tutto a spese della classe media e medio-bassa: per questa tipologia di cittadini la differenza verrà fatta dal reddito dei figli che, come prima della previdenza, torneranno a sostenere l’onere economico dei parenti in difficoltà.
Attualmente l’Inps gestisce circa diciotto milioni di pensioni, il 77 per cento di natura previdenziale e il 23 per cento di tipo assistenziale (vecchiaia, povertà, malattia). Nel 2024 l’Inps ha sostenuto una spesa per le pensioni previdenziali di circa 310 miliardi di euro (incremento del 5,19 per cento rispetto all’anno precedente dovuto principalmente alle rivalutazioni delle pensioni esistenti).
Dopo un futuribile fallimento dell’Inps il 23 per cento assistenziale rimarrebbe a carico dello Stato, che assicurerebbe la previdenza a poveri, anziani e invalidi. Invece il restante 77 per cento sarebbe costretto a ricominciare da zero attraverso l’iscrizione obbligatoria ad una previdenza assicurativa privata, certamente in mano ad un colosso multinazionale non italiano.
Ben si comprende perché il salotto alto dell’economia internazionale auspichi il fallimento dell’Inps. Soprattutto si comprende perché certi bei nomi dell’imprenditoria italiana abbiano investito nella previdenza norvegese e privata danese: paesi dove comunque c’è una ferrea vigilanza statale sui fondi pensione, e dove difficilmente passerebbero piani come le cartolarizzazioni che hanno ucciso il patrimonio immobiliare dell’Inps.
In troppi augurano la tempesta perfetta, ovvero un falò del risparmio da consumarsi mentre l’Inps piega il ginocchio. Chi vi scrive ha provato a prendere l’argomento con vari esponenti di maggioranza e di governo, tutti hanno risposto “cambiamo discorso… goditi l’estate”.
Aggiornato il 27 agosto 2025 alle ore 13:46