Il caso Intel e quei soldi nostri non spesi (per fortuna)

Nel 2022, il governo italiano provava a mettere sul piatto oltre 4 miliardi di euro del contribuente per convincere Intel ad aprire uno stabilimento in Italia. All’epoca l’opera di seduzione non funzionò. Col senno di poi, si può dire: per fortuna.

La storia merita di essere raccontata per intero, partendo però dall’epilogo: Intel ha annunciato di aver cancellato tutti i suoi investimenti europei, per un valore complessivo di 30-35 miliardi. Dietro la decisione c’è, certamente, l’effetto delle pressioni di Donald Trump per attrarre la manifattura negli Stati Uniti. Ma c’è, soprattutto, la presa d’atto che i sussidi possono abbattere i costi sostenuti direttamente dall’investitore, ma non bastano a creare le condizioni più opportune a produrre un certo bene. Il vantaggio competitivo per produrre microchip può arrivare solo al prezzo di una manodopera altamente qualificata, di un’esperienza produttiva e di un ecosistema dell’innovazione che l’Europa evidentemente non è in grado di offrire.

Dopo aver considerato l’Italia, l’azienda americana aveva valutato un maxi-investimento in Germania, dove il governo offriva quasi 10 miliardi di euro, con un ulteriore stabilimento in Polonia. Tutto ciò rispondeva a un input strategico da Bruxelles, che col suo Chips Act (poi replicato o ampliato al livello degli Stati membri) ambiva a riconquistare, non ridete, la sovranità strategica sui chip per emanciparsi dalla dominanza di Taiwan e della Corea del sud (sempre nella malsana convinzione che non sia importante avere ciò di cui si ha bisogno, ma produrlo in prima persona). Alla fine dell’anno scorso Intel ha messo in pausa anche il progetto tedesco, che oggi viene definitivamente abbandonato, come non era difficile prevedere.  

La tipica reazione europea prevedrebbe, a questo punto, la solita lamentela: il problema, come sempre, sarebbe che i soldi (nostri) non erano abbastanza. Prima di dirlo, vale la pena guardare a quello che sta accadendo agli investimenti Intel negli Stati Uniti. L’Inflation Reduction Act - forse il più grande provvedimento di “politica industriale” della storia americana recente - metteva enormi risorse a disposizione dell’industria dei chip; Intel ne è stata tra i più grandi beneficiari. Ebbene, nelle sue dichiarazioni finanziarie Intel ha comunicato che potrebbe abbandonare lo sviluppo delle tecnologie di nuova generazione a meno di trovare “una significativa clientela esterna”.

Di tutto ciò, oggi resta solo la delusione di chi pensava che bastasse la carota del denaro pubblico per far sbocciare le fabbriche. Ma resta, più in profondità, anche una consapevolezza ulteriore, che speriamo possa affacciarsi nella nostra politica, per cui - se anche l’impianto fosse stato realizzato - ciò non avrebbe in alcun modo dato la garanzia di uno sviluppo proficuo e competitivo. Anzi: il fatto che un’azienda sia disponibile a prendersi del rischio solo in cambio di una sua parziale (più o meno significativa) socializzazione per interposti aiuti di Stato, dovrebbe far sollevare più di un sopracciglio e smorzare ogni entusiasmo. Quando poi neppure a fronte di aiuti massicci gli investimenti si realizzano, perché l’investitore stesso è convinto di non avere mercato, allora bisogna solo ringraziare il cielo che quei fondi siano rimasti sulla carta e non siano stati spesi.

Aggiornato il 29 luglio 2025 alle ore 10:13