Un’altra “Settimana decisiva” per l’ex Ilva

La vicenda dell’ex Ilva è un concentrato di tutti i mali del nostro Paese e di tutte le ragioni per cui si fatica, in Italia, a fare impresa

I giornali parlano, per l’ennesima volta, di “settimana decisiva” per l’ex Ilva. Nei prossimi giorni sono attese decisioni che avranno grandi conseguenze sull’acciaieria: al ministero delle Imprese e del Made in Italy, il ministro Adolfo Urso ha convocato una riunione no stop sull’accordo di programma, mentre il tribunale di Milano potrebbe imporre la chiusura dello stabilimento se non si arriverà a un risultato. Il problema è che la politica e i sindacati stanno facendo i conti senza l’oste, cioè le imprese: chi dovrebbe farsi carico dell’esecuzione degli impegni che eventualmente usciranno dal portone di Via Veneto?

La realtà è che i conti si fanno senza l’oste perché l’oste non c’è; o, meglio, è stato costretto alla fuga proprio dalla politica e della magistratura. La vicenda dell’ex Ilva è un concentrato di tutti i mali del nostro Paese e di tutte le ragioni per cui si fatica, in Italia, a fare impresa. Tutto inizia con un intervento a gamba tesa della magistratura che, in via precauzionale, impone lo spegnimento dei forni. Da lì prende avvio una serie infinita di decreti finalizzati, da un lato, a mitigare le decisioni del tribunale (quanto meno fino a conclusione dei processi, che nel frattempo hanno tra l’altro prodotto varie assoluzioni); dall’altro, a reperire le risorse necessarie agli investimenti per l’ambientalizzazione a spese dei precedenti proprietari (la famiglia Riva); dall’altro ancora a trovare operatori industriali che si facciano carico degli stabilimenti; e dall’altro, infine, a cambiare continuamente le carte in tavola, di fatto mettendo questi ultimi nell’impossibilità di operare o dandogli il pretesto per chiamarsene fuori (è successo con ArcelorMittal e sta succedendo di nuovo).

Tra i tanti vizi di fondo, ce n’è uno particolarmente evidente: nessuna impresa industriale accetterebbe mai di rilevare impianti così complessi, in un mercato tanto competitivo come quello dell’acciaio, ricevendo un piano industriale redatto da altri, che dice cosa fare, come farlo, sotto quali vincoli e con quanti occupati. In queste condizioni non è sorprendente che non si trovino imprenditori; né la nazionalizzazione può essere una via d’uscita, perché neppure lo Stato azionista potrebbe superare le enormi contraddizioni tra questi obiettivi. Ma neppure il definitivo fallimento viene comprensibilmente preso in considerazione, viste le drammatiche implicazioni sociali: il risultato è che abbiamo perso un decennio abbondante dando calci alla lattina.

Aggiornato il 09 luglio 2025 alle ore 11:05