Burocrazia energetica: la piovra che stringe la proprietà

Un groviglio di obblighi, interpretazioni ministeriali e carte imposte soffoca il mercato libero e mina la certezza dei contratti

Non c’è limite all’inventiva dello Stato nel trasformare un rapporto privato in un’occasione per esercitare potere ed espandere il suo raggio d’azione. È quanto avviene nel caso del rinnovo tacito dei contratti di locazione abitativa, che secondo una recente nota ministeriale – la n. 30213/2025 – obbligherebbe il proprietario a rifare l’Attestato di Prestazione Energetica (Ape) anche in assenza di qualsiasi cambiamento: l’inquilino non cambia, l’immobile rimane identico, il contenuto contrattuale resta invariato. È un esempio perfetto di come un adempimento, già di per sé discutibile, venga trasformato in una tassa occulta e in un atto di sottomissione burocratica.

Com’è noto, tale attestato, introdotto con il pretesto di migliorare l’efficienza energetica degli edifici, non ha mai avuto in realtà alcuna utilità concreta. Infatti, non ha migliorato il patrimonio immobiliare, né ha inciso sulle scelte degli inquilini, tanto meno ha prodotto alcun risparmio reale. È nato come strumento di controllo, travestito da misura tecnica, e ha in definitiva rappresentato fin dall’inizio un onere imposto per legge, funzionale solo a moltiplicare i costi e ad arricchire un sistema di certificatori, funzionari e apparati.

In Italia si è addirittura ridotto a un documento cartaceo, spesso redatto in modo meccanico, utile solo a evitare sanzioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, è innegabile, non incide sui prezzi di mercato e non fornisce alcuna indicazione che il buon senso dell’inquilino non sia già in grado di cogliere entrando in un’abitazione. In definitiva, è solo una formalità costosa, imposta e inutile.

A peggiorare le cose, ora si aggiunge l’interpretazione secondo cui, se il contratto si rinnova tacitamente, l’attestazione scaduta va comunque rifatta. Poco importa che il conduttore sia lo stesso, che l’immobile non sia cambiato, che nessuno lo abbia richiesto. L’obbligo viene fatto discendere da una lettura ipertestuale e ultra formalistica dell’articolo 1597 del Codice civile, dove si parla di “nuova locazione” in caso di rinnovo tacito. Ma ciò che in ambito civilistico è un effetto automatico e fisiologico, qui diventa il pretesto per imporre una prestazione nuova e onerosa. Un’altra tassa sulla stabilità, travestita da norma ambientale.

Un simile ragionamento, tuttavia, non ha alcun fondamento. L’articolo 6 del d.lgs. 192/2005 parla chiaramente di “nuovo locatario”, cioè di un diverso soggetto che entri in un rapporto locatizio. Non di chi già abita e continua ad abitare lo stesso immobile. Eppure, il Ministero aggira il testo, riscrivendolo in base a una ratio presunta, e pretendendo coerenza con una direttiva europea che – peraltro – non impone alcun obbligo in caso di mera prosecuzione contrattuale. Così, un’interpretazione ministeriale si sostituisce alla legge e genera un obbligo che nessun legislatore ha voluto introdurre.

Ed è qui che si inserisce un altro strumento diventato pericolosamente centrale nella prassi amministrativa: l’interpello. Pensato in origine come canale di confronto tra cittadino e pubblica amministrazione, avrebbe dovuto limitarsi a chiarire dubbi interpretativi. Nel tempo, invece, ha assunto un ruolo normativo di fatto. Le risposte del Ministero, spesso formulate in forma informale o paragiuridica, finiscono per avere effetti vincolanti. Il pronunciamento crea obblighi, genera prassi, viene invocato come se fosse legge. È una forma di produzione normativa senza rappresentanza, senza contraddittorio, senza responsabilità politica.

Anche in questo caso, una domanda proveniente da una Regione si è trasformata in una nuova stretta per tutti i proprietari. Il meccanismo si è rovesciato: da strumento pensato per offrire certezze, è diventato un moltiplicatore di obblighi, con la complicità della burocrazia fiscale, che lo utilizza per ampliare a dismisura le occasioni di verifica, contestazione e sanzione. È il trionfo “dell’amministrazione creativa”, dove ciò che non è espressamente escluso diventa permesso per lo Stato e divieto per il cittadino.

Frédéric Bastiat aveva già colto con lucidità detto meccanismo: “Lo Stato è quella grande finzione per cui tutti cercano di vivere a spese di tutti gli altri”. Ma, soprattutto, aveva messo in guardia contro la deriva della legge che, da strumento di garanzia, diventa mezzo di spoliazione legalizzata. Il pensatore denunciava il pericolo di una norma che, invece di proteggere la libertà, si arroga il potere di disciplinare ogni dettaglio della vita privata. Ed è esattamente ciò che accade quando un interpello amministrativo si trasforma in una fonte parallela di obblighi, eludendo ogni forma di legittimazione democratica.

Non è la prima volta che lo Stato traveste un prelievo con vesti nobili. Già nell’Inghilterra del Settecento, con la famigerata Window Tax, si pretendeva di colpire i più ricchi tassando il numero di finestre, ufficialmente per giustizia redistributiva, in realtà per raccogliere fondi senza dire “tassa”. Il risultato fu che migliaia di case vennero murate, buie, meno salubri. Oggi, il congegno è simile: si colpisce la libertà con l’alibi della sostenibilità, si impone un documento come fosse una misura di progresso, ma in realtà è solo un costo aggiuntivo per chi non ha cambiato nulla.

Il risultato è una perversione del rapporto tra privato e pubblico. Un contratto che si rinnova tacitamente – cioè, senza che le parti lo modifichino – viene trattato come una nuova fonte di obblighi. Un attestato pensato per promuovere efficienza diventa un’imposta indiretta. Un meccanismo di chiarimento amministrativo diventa una forma di legificazione surrettizia. Il tutto, nel silenzio generale, e nella convinzione che “tanto sono adempimenti minimi”. Che, però, non esistono quando si sommano a centinaia. Soprattutto, non esiste alcun progresso autentico qualora la libertà di disporre delle proprie cose, di stipulare patti, di mantenerli invariati senza interferenze, venga erosa anno dopo anno da norme e interpretazioni che non rispondono a nessuna logica contrattuale, ma solo alla pretesa dello Stato di mantenere sé stesso.

Una società libera si regge sulla fiducia, non sulla proliferazione di documenti. Servono informazioni volontarie, non certificati imposti. Occorrono regole certe e stabili, non obblighi presunti. È questo il vero risparmio energetico: quello che si ottiene evitando ai cittadini di sprecare energia per ottemperare a regole inutili.

Aggiornato il 30 giugno 2025 alle ore 10:22