
Rinviata ancora, resta nei conti ma non nella realtà: una finzione fiscale che rivela la deriva paternalista del potere.
Con l’ennesimo rinvio disposto dal decreto-legge del 20 giugno 2025, che ne ha posticipato l’entrata in vigore al 1° gennaio 2026, la sugar tax italiana tocca il culmine dell’assurdo. Introdotta formalmente sei anni fa, non è mai stata applicata. È stata sospesa da leggi di bilancio, decreti fiscali, provvedimenti emergenziali. Nonostante ciò, continua a sopravvivere come un’ombra normativa: priva di effetti concreti, ma pienamente presente nei documenti contabili del ministero dell’Economia. Una tassa fantasma, che sulla carta vale centinaia di milioni, impiegati per giustificare spese effettive. È il paradosso di un fisco costruito sulle illusioni, che colpisce più nella forma che nella sostanza, ma finisce per danneggiare davvero imprese, cittadini e fiducia istituzionale.
Nelle intenzioni dei proponenti – esponenti dell’allora governo Conte II, in particolare del ministero della Salute e del Ministero dell’Economia in quota centrosinistra – siffatta tassa doveva essere una misura salutista, orientata a disincentivare il consumo di bevande zuccherate. Un’imposta di scopo, secondo la retorica tecnocratica, utile a correggere abitudini considerate “nocive” e a generare, nel contempo, nuove entrate. In realtà si è rivelata un pasticcio. Non solo perché mai applicata, ma perché fondata su un presupposto discutibile: che lo Stato possa e debba modellare i comportamenti alimentari dei cittadini attraverso la leva fiscale. È la logica dello Stato-dietologo, che si attribuisce il diritto di decidere cosa sia giusto consumare e di orientare le scelte personali con la minaccia del prelievo, come se il potere pubblico avesse una superiorità morale sulle preferenze individuali.
Ma uno Stato non è – e non deve diventare – un nutrizionista collettivo. Non può stabilire per decreto ciò che è salutare o dannoso, se non nei limiti della trasparenza informativa e della tutela contro rischi certi, circoscritti e dimostrabili. Le scelte su come vivere, cosa mangiare o bere, quali stili di vita adottare, spettano all’individuo, a condizione che non ledano i diritti altrui (neminem laedere). Ogni tentativo di superare questo confine – anche quando si presenta come tutela della salute – si traduce in un’invasione indebita nella sfera personale. E non è certo l’eccezione del tabacco a giustificarla: anche in quel caso, divieti e restrizioni non si fondano sul rispetto dell’autonomia individuale, ma su un’idea dirigista di società.
Lo zucchero non è una sostanza stupefacente, e bere una lattina di bibita gassata non costituisce un atto d’offesa. Eppure, la linea tra ciò che viene consentito e ciò che, al tempo stesso, si tende a scoraggiare o punire indirettamente, si fa ogni giorno più sottile. È la contraddizione di uno Stato che da un lato permette e incassa, ma dall’altro disapprova e reprime. Il tabacco ne è l’esempio più evidente: venduto nei tabaccai sotto monopolio pubblico, rappresenta una fonte stabile di gettito, ma allo stesso tempo è oggetto di campagne dissuasive, immagini terrorizzanti sui pacchetti, divieti sempre più estesi. Una logica schizofrenica che non orienta, ma disorienta; che non responsabilizza, ma infantilizza. E che, se estesa ad altri ambiti, finisce per svuotare di senso la distinzione tra libertà e divieto.
Una volta imboccata la strada del paternalismo fiscale, è difficile stabilire un limite. Oggi si tassano le bevande zuccherate, domani il caffè, poi l’alcol, forse la carne. Non si tratta di scenari immaginari: in diversi Paesi simili restrizioni sono già realtà o oggetto di proposte avanzate. È il segno di un modello in cui la libertà viene tollerata solo finché compatibile con i criteri del potere pubblico. E in cui il cittadino non è più considerato un individuo capace di scegliere, ma un soggetto da indirizzare, correggere, autorizzare.
Inoltre, non si può tacere sull’incoerenza procedurale con cui questa imposta è stata gestita. Otto rinvii in sei anni: un record che rivela l’incapacità di decidere. O si applica, accettandone le conseguenze. Oppure si cancella, assumendosi la responsabilità di una scelta definitiva. Il rinvio perpetuo, invece, è una fuga dalla verità, un alibi per non ammettere che l’idea iniziale era fallimentare. Serve anche a salvare le apparenze: la tassa figura nei testi ufficiali, così si può sostenere che qualcosa si stia facendo contro l’obesità. In realtà, però, non si applica nulla: per non turbare troppo le imprese, per non deprimere i consumi, per non aggravare un sistema produttivo già fortemente provato.
Le opinioni emerse in questi giorni – diverse e in alcuni casi contrastanti – dimostrano quanto sia fragile l’intera costruzione. C’è chi insiste a difendere l’imposta come deterrente morale, chi invece ne denuncia gli effetti economici, chi ne propone persino la riformulazione. Ma nessuno sembra voler affrontare il cuore del problema: lo Stato non può trasformarsi in guida etica dei comportamenti privati. Non può esercitare una funzione educativa per via fiscale senza travalicare il confine che lo separa dall’intimità delle scelte individuali.
Una società matura si fonda sulla responsabilità dei singoli, non sull’indottrinamento normativo. Le scelte alimentari, come ogni decisione personale, sono il frutto di valori, preferenze, abitudini. Compito delle istituzioni non è omologarle, ma garantire che siano informate e consapevoli. Spetta ai cittadini decidere cosa mettere nel proprio piatto, non a un apparato normativo che punisce, scoraggia, orienta, misura.
Il paradosso, tuttavia, è che proprio mentre si pretende di regolare la salute dei singoli, si rinuncia alla verità nei conti pubblici. La sugar tax non solo non produce benessere: non produce nemmeno entrate. Continua però a figurare nelle manovre come se fosse reale. È una forma di contabilità creativa che mina alla base ogni serietà istituzionale. Come si può chiedere ai contribuenti di pagare con puntualità, quando lo Stato stesso costruisce il bilancio su presupposti fittizi?
La questione della sugar tax è quindi rivelatrice di una malattia più profonda: un potere pubblico che promette tutto, realizza poco, e copre le sue incertezze con norme simboliche. L’esatto contrario della sobrietà, della precisione e del limite. Se si vuole un sistema fiscale credibile, bisogna partire da qui: abolire ciò che non serve, non funziona e non viene attuato. Ristabilire il legame tra imposte reali e servizi reali, tra entrate e doveri precisi, tra contribuzione e garanzia. E soprattutto, restituire spazio alle scelte personali, smettendo di trattare i cittadini come minori da correggere.
In tempi in cui si parla molto di sostenibilità, sarebbe utile ricordare che la prima forma di sostenibilità è quella istituzionale. E che un ordinamento è sano non quando tassa tutto ciò che non approva, ma quando riconosce che la libertà non è un’eccezione da tollerare: è la regola da cui partire.
Aggiornato il 23 giugno 2025 alle ore 10:46