Tagli finti, tasse vere: il fisco non molla mai

La promessa riduzione dell’Irpef è solo un maquillage.

Il potere fiscale resta intatto, pervasivo, strategico. E continua a colpire chi produce.

In un clima di crescente sfiducia verso lo Stato e i suoi apparati, non stupisce che le parole della Presidente del Consiglio rivolte nei giorni scorsi al mondo dell’impresa e delle professioni abbiano riscosso applausi: “Il fisco deve aiutare, non opprimere”, “voi siete il motore del Paese”. Affermazioni condivisibili, che accarezzano l’opinione pubblica e cercano di rassicurare quel ceto produttivo schiacciato da decenni di pressione fiscale e burocrazia. Il punto, però, non è ciò che si dice: è ciò che si fa. E i segnali concreti, purtroppo, restano deboli. La tanto sbandierata riduzione dell’aliquota Irpef dal 35 al 33 per cento per i redditi fino a 60.000 euro rischia di essere l’ennesima mossa simbolica: una correzione cosmetica, non una rivoluzione fiscale.

Annunciare un taglio fiscale non è difficile. Realizzarlo davvero, senza aumentare il debito né scaricare il peso su altri contribuenti, è tutt’altra cosa. In un Paese in cui la pressione fiscale ufficiale supera il 43 per cento e quella reale è ben più opprimente, un semplice ritocco rischia di essere poco più che un’illusione contabile.

Invero, la vera questione non è quale aliquota applicare, ma quale rapporto lo Stato intenda intrattenere con i suoi cittadini. Oggi il prelievo fiscale non è più solo una fonte di finanziamento pubblico: è divenuto lo strumento attraverso cui il potere politico estende il proprio controllo, orienta le scelte individuali, impone un codice di comportamento e restringe l’autonomia personale. In questo senso, la fiscalità non è più una questione economica: è una questione di libertà.

In un sistema di tassazione avanzata e ipertrofica, l’individuo è incentivato a conformarsi ai parametri imposti dallo Stato, pena la perdita di benefici o l’aggravio di oneri. Bonus, detrazioni, esenzioni selettive: ciò che appare come un vantaggio è spesso un vincolo mascherato. Il cittadino viene spinto ad agire secondo gli interessi del potere centrale, non secondo le proprie priorità. E così, anziché incentivare la responsabilità, si coltiva la sudditanza.

La curva di Laffer mostra come, oltre una certa soglia, l’incremento delle aliquote non generi più gettito, ma evasione, elusione, disincentivo alla produttività. Non è solo il gettito a calare quando la tassazione diventa eccessiva: è la dignità del contribuente che viene umiliata, la fiducia nella legalità che si erode, il senso civico che si spegne. Il prelievo diventa espropriazione, il dovere contributivo si trasforma in una forma di coercizione travestita da giustizia.

Di fronte a tale realtà, la risposta istituzionale resta incerta e ambigua. Il ministro Giorgetti ha parlato di compatibilità del taglio Irpef con i saldi di bilancio. Una prudenza che suona come una rinuncia. Perché proprio qui si manifesta l’inconsistenza dell’impianto: si annuncia la riduzione delle imposte senza intaccare la spesa pubblica, si blandisce il ceto medio senza abbandonare i meccanismi redistributivi, si parla di semplificazione senza toccare l’intreccio normativo che alimenta il potere fiscale. In questo modo, non si riforma nulla: si sostituisce un’imposta con un’altra, si cambia la forma ma non la sostanza, si perpetua lo stesso paradigma.

Intanto, mentre il dibattito si concentra su decimali e compatibilità contabili, resta intatto il nocciolo del problema: la pervasività del fisco nella vita quotidiana. Non si tratta solo di quanto si paga, ma di come si vive. Un fisco che entra nella casa, nel portafoglio, nelle scelte personali – dal riscaldamento domestico all’alimentazione, dalla mobilità ai consumi culturali – non è uno strumento neutrale: è un potere che colonizza. L’eccesso normativo non è casuale: è funzionale al controllo. E la complessità fiscale, lungi dall’essere un problema tecnico, è una strategia politica. Più il sistema è incomprensibile, più l’individuo è vulnerabile. Più è vulnerabile, più è ricattabile. E più è ricattabile, più è disposto a cedere libertà in cambio di protezione.

Una vera riforma fiscale dovrebbe partire da un rovesciamento del principio. Non chiedere al cittadino di dimostrare la propria conformità, ma allo Stato di giustificare ogni prelievo. Non punire chi non riesce a stare al passo con le regole, ma limitare le regole a ciò che è comprensibile e necessario. L’obiettivo non dovrebbe essere la “compliance”, ma l’autonomia. Non la sottomissione, ma la sovranità personale.

Il ceto medio, vero bersaglio silenzioso di ogni sistema fiscale oppressivo, non ha bisogno di correttivi episodici. Ha bisogno di vedere riconosciuto il proprio ruolo di perno della società libera. Esso lavora, risparmia, investe, educa, produce. Nonostante ciò, viene costantemente penalizzato, laddove altri gruppi ottengono favori, protezioni o esenzioni, finisce per smettere di credere nel merito e nella legalità. E questo è il preludio al declino di ogni ordine liberale.

Flat tax, dismissioni del patrimonio pubblico improduttivo, pareggio di bilancio costituzionale, abolizione delle microtasse e delle imposte patrimoniali implicite: queste sono le direttrici su cui dovrebbe muoversi una riforma vera, ispirata ai principi della libertà. Ma soprattutto, occorre una rinnovata cultura fiscale: una cultura che non consideri il cittadino come debitore predefinito dello Stato, ma come titolare originario della propria ricchezza, del proprio tempo, del proprio destino.

In un sistema sano, le tasse non devono essere né pervasive, né pedagogiche, né punitive. Devono essere limate, limitate, leggibili. Devono essere accettate, non temute. Devono essere espressione di una comunità di individui liberi, non di un potere centrale che si erge a giudice delle scelte altrui. La fiscalità non deve disciplinare: deve permettere. Non deve addestrare: deve lasciare spazio.

Il tempo delle promesse cosmetiche è finito. Ogni giorno che passa senza una riforma fiscale autenticamente liberale è un giorno in cui la libertà economica arretra. E con essa arretra la libertà tout court. La pressione fiscale non si misura solo in percentuali, ma nella somma dei timori, degli adempimenti, delle rinunce. Finché lo Stato non cesserà di trattare i cittadini come sospetti da controllare e inizierà a considerarli proprietari da rispettare, nessun taglio d’imposta sarà sufficiente. Perché non è solo una questione di quanto si paga, ma di chi decide quanto si può vivere liberamente.

Aggiornato il 16 giugno 2025 alle ore 10:43