
Come è noto, la premier Giorgia Meloni, intervenendo agli Stati generali dei commercialisti, ha dichiarato di voler tagliare le tasse, con particolare attenzione al ceto medio, tradizionale bacino di consenso dell’attuale maggioranza. Ovviamente, in qualità di garante della tenuta dei conti pubblici, e di conseguenza della sostenibilità del nostro enorme debito sovrano, il ministro dell’Economia, il bocconiano Giancarlo Giorgetti, ha leggermente frenato, dicendo ai giornalisti presenti “che per il taglio fiscale al ceto medio ci sono ancora due anni e mezzo. Io faccio quello che c’è scritto – ha aggiunto – nel programma politico del Governo, e cerco di renderlo possibile. Tutti questi annunci sono condivisibili, però a me sta il compito di creare le condizioni affinché si possano verificare. Se sono ottimista? Sono realisticamente ottimista”. In realtà, a mio modesto parere, al di là dei vari posizionamenti dei partiti di Governo (Fratelli d’Italia e Forza Italia sarebbero favorevoli a un taglio immediato, mentre la Lega vorrebbe dare la precedenza alla pace fiscale, con la rottamazione definitiva di milioni di cartelle esattoriali), il problema è sempre lo stesso da molti decenni: senza un abbattimento consistente della spesa pubblica, soprattutto quella di parte corrente, è impossibile tagliare sensibilmente la pressione tributaria allargata, a meno di non mettere in grande difficoltà la summenzionata sostenibilità di un debito pubblico che ha sfondato da tempo la soglia psicologica dei tremila miliardi di euro.
E ciò accadrebbe nel momento in cui i mercati, ossia chi ci compra e ci rinnova i titoli di Stato, dovesse assistere a una sciagurata riduzione delle imposte essenzialmente realizzata in deficit. D’altro canto, data l’impossibilità politica di realizzare draconiane sforbiciate sul fronte della spesa, l’unica strada percorribile nelle moderne democrazie, a parte quelle che si trovavano alla canna del gas come nel caso dell’Argentina, passa per una graduale riduzione del perimetro pubblico. Ciò significa, in soldoni, mandare a morire molti settori inutili e costosi dell’impiego pubblico, evitando di riassumere dopo il pensionamento di molti dei relativi dirigenti e impiegati o rivedere in profondità l’immenso capitolo dei trasferimenti che gestisce lo Stato centrale, solo per fare due esempi concreti. Ma per fare questo è probabile che non bastino neppure due intere legislature. Solo che, se non si comincia ad alleggerire lo Stato leviatano, con l’obiettivo di ridurre molti dei suoi apparati, delle sue competenze e, conseguentemente, delle sue spese, ci ritroveremmo per l’ennesima volta in due o tre liberali a cantare Mapim mapom.
Aggiornato il 12 giugno 2025 alle ore 10:11