Chiuso il referendum, apriamo un dibattito sulla produttività

È ora di aprire un dibattito serio – e questa volta sì, di merito – sulle ragioni per cui il nostro Paese fatica a crescere.

Alla fine, dopo settimane di polemiche e ricatti sulla partecipazione al referendum (in particolare quelli sul lavoro) come “dovere civico”, gli italiani hanno scelto, a grande maggioranza, di non recarsi alle urne.

Ci sono due modi di interpretare questo risultato, non mutuamente esclusivi. Il primo è prenderlo come una consapevole scelta di merito: circa il 70 per cento degli elettori, a cui si aggiungono quelli che hanno votato ma si sono espressi per il no, hanno rigettato le conseguenze del “ritaglio normativo” che sarebbe stato operato dai quesiti, ove accolti. Possiamo interpretarlo come una pronuncia a favore del mantenimento di un ragionevole grado di flessibilità nel mercato del lavoro, del resto caratterizzato da livelli record sia di occupati, sia di contratti a tempo indeterminato. Insomma: mai come oggi il problema non sta nel feticcio del precariato, quanto nella stagnazione della produttività (e dunque dei salari). O, comunque, possiamo vedervi il segno dello scetticismo sulle ricette della Cgil e dei promotori del referendum (tra cui la quasi totalità della classe dirigente del partito che aveva voluto le norme oggetto della consultazione).

Alternativamente, si può ritenere che gli italiani non si siano pronunciati sul merito dei quesiti ma sull’abuso dello strumento referendario: pensato per affrontare grandi questioni politiche, oggi esso viene ridotto a meccanismo per effettuare un’operazione opaca di taglia-e-cuci giuridico, con l’unico (e dichiarato) obiettivo di lanciare un segnale politico. Di fronte a quesiti difficilmente comprensibili, per quanto di chiaro segno ideologico, che affrontavano aspetti di dettaglio, gli italiani hanno sostanzialmente detto ai decisori politici di fare il proprio mestiere, senza evocare continuamente la supplenza del corpo elettorale.

Non importa quale delle due interpretazioni sia corretta o prevalente: entrambe sono coerenti nel confermare che gli italiani hanno visto nell’astensione il modo giusto per dire quel che pensano. Adesso sarebbe meglio evitare improbabili politicizzazioni dell’esito referendario, o rese dei conti all’ombra dello stesso, e aprire un dibattito serio – e questa volta sì, di merito – sulle ragioni per cui il nostro Paese fatica a crescere. Certamente non per eccesso di flessibilità nel mercato del lavoro.

Aggiornato il 11 giugno 2025 alle ore 16:47