
Le riflessioni conclusive del massimo esponente di Bankitalia rilanciano un modello statalista che trascura la centralità della libertà economica e dell’iniziativa privata
A fine maggio di ogni anno, il Governatore della Banca d’Italia prende la parola con le sue considerazioni finali. È un rito che, sin dai tempi di Guido Carli e poi di Ciampi e Fazio, non si limita a offrire riflessioni tecniche, ma ambisce a dettare la linea politica ed economica del Paese. Negli anni Settanta il medesimo Carli denunciava l’espansione incontrollata della spesa pubblica; negli Ottanta Ciampi rivendicava la disciplina monetaria; nel 1992 Fazio additava l’Europa come vincolo virtuoso. In tutti questi interventi, tuttavia, si ritrova un comune denominatore: l’idea che lo Stato debba essere il perno della crescita. Anche oggi, in un contesto storico e internazionale mutato, si rinnova l’illusione che da Palazzo Chigi o da via Nazionale possa arrivare la scintilla per far ripartire l’Italia.
Nel 2025, anche il nuovo responsabile di Palazzo Koch, Fabio Panetta, conferma siffatta impostazione, enfatizzando il ruolo cruciale degli investimenti pubblici e la necessità di superare la frammentazione dei mercati finanziari europei. Assume infatti che “per eliminare alla radice la frammentazione del mercato dei capitali lungo linee nazionali è cruciale introdurre un titolo pubblico europeo, con un duplice obiettivo: finanziare la componente pubblica degli investimenti e fornire un riferimento comune, solido e credibile all’intero sistema finanziario”.
Tanto senza considerare tuttavia che la crescita economica duratura nasce dalla libertà degli individui e delle imprese di operare senza vincoli eccessivi, non dalla pianificazione statale, come del resto ha osservato Friedrich A. von Hayek, secondo cui “lo Stato non è mai in grado di fornire agli individui le informazioni che servono per coordinare le loro attività in modo efficace, perché queste informazioni sono disperse e mutevoli”. Dello stesso avviso pure Ludwig von Mises, che ha ammonito: “Ogni volta che lo Stato si assume un compito economico, sottrae risorse, energie e libertà all’iniziativa privata, e con ciò indebolisce le basi stesse della prosperità”.
Nella relazione finale afferma poi che “i nostri sistemi di protezione sociale, fondati sul principio di solidarietà, sono condizioni per lo sviluppo, sono cardini della convivenza civile nel nostro continente”. È una convinzione che nasconde però un’illusione pericolosa: la prosperità si fonda sulla responsabilità individuale e sulla libertà, non sulla dipendenza da un welfare esteso che, seppur fondato sulla solidarietà, rischia di deprimere l’iniziativa e appesantire l’economia con un fardello fiscale e burocratico sempre più gravoso.
Ancora. Panetta segnala anche che “il costo dell’elettricità risulta doppio rispetto a Stati Uniti e Cina”, una realtà che penalizza la competitività europea e italiana. Com’è evidente, l’intervento pubblico qui prevale come soluzione, laddove una maggiore apertura e concorrenza di mercato potrebbero piuttosto abbassare significativamente i costi e stimolare gli investimenti. Quanto al commercio internazionale di servizi, il primo banchiere centrale rileva che esso “ha registrato una crescita superiore a quella degli scambi di beni, grazie anche alla digitalizzazione”. Nello stesso tempo invoca, però, una “efficace regolamentazione” per contenere la concentrazione delle grandi imprese tech. Una posizione ambivalente, che pare sottovalutare come una vera liberalizzazione e una concorrenza aperta siano strumenti più efficaci per incentivare innovazione e pluralismo. Sul versante dell’innovazione, ricorda quindi che “le imprese europee investono in ricerca e sviluppo la metà di quelle statunitensi”, una criticità che riflette chiaramente l’eccesso di burocrazia e intervento statale, spesso paralizzanti per l’iniziativa privata. L’Italia, in particolare, paga il prezzo di “un peso di un debito pubblico che toglie spazio agli investimenti e condiziona le politiche economiche”.
Il massimo esponente di Bankitalia richiama inoltre l’attenzione sui pericoli legati all’intensificarsi del legame tra criptoattività e finanza tradizionale, avvertendo che “la crescente interconnessione con il sistema finanziario rende più difficile contenerne i rischi”. La normativa europea MiCar tenta di introdurre un quadro ordinato, ma deve evitare di tramutarsi in un apparato soffocante. È necessario proteggere i risparmiatori, certo, senza compromettere in alcun caso l’innovazione e la libertà d’impresa: un mercato aperto e dinamico resta il miglior presidio contro instabilità e abusi. A tal proposito non è inutile ricordare che l’interventismo non è un modello economico, bensì un mero sistema di procedure che non offre una via affidabile per raggiungere risultati e si riduce a un insieme di misure che deformano — e talvolta compromettono — il funzionamento del mercato. Invece di favorire la produzione e rispondere ai bisogni reali, finisce per ostacolarli. Non accresce il benessere dei cittadini: lo erode, rendendoli non più ricchi, ma più poveri.
A parte quanto detto, il citato numero uno della Banca d’Italia aggiunge ancora che: “L’Unione europea rimane un baluardo dello Stato di diritto, della convivenza democratica e dell’apertura agli scambi e alle relazioni internazionali. Non può però permettersi di rimanere ferma. Deve avere la capacità di superare i particolarismi nazionali, per tradurre in peso politico la sua forza economica e il patrimonio di cultura e valori di cui è portatrice”. Invero, questa spinta verso un maggior accentramento rischia di tradursi in un aumento della burocrazia e dell’omologazione normativa, con il pericolo di limitare la libertà degli Stati di sperimentare modelli economici differenti, indispensabili per stimolare innovazione e crescita. La vera ricchezza nasce dalla libertà di competere e dalla possibilità di adottare soluzioni diverse, non da un controllo centralizzato. Se l’Europa dovesse trasformarsi in una torre di Babele normativa, le regole complesse finirebbero per soffocare l’iniziativa privata e consolidare rendite di posizione, ostacolando lo sviluppo reale auspicato.
In definitiva, l’impostazione che si commenta continua a nutrire l’illusione dello Stato come motore principale della crescita. E lo fa a dispetto della storia economica che ha insegnato e insegna che la vera prosperità deriva dalla libertà economica, dalla tutela della proprietà privata e dalla concorrenza.
Solo liberando queste forze sarà possibile superare le sfide di innovazione, produttività e crescita che oggi pesano su Italia ed Europa.
Aggiornato il 03 giugno 2025 alle ore 13:58