
La stagnazione non è una condanna del cielo, è l’effetto inevitabile delle scelte politiche assunte concretamente, giorno dopo giorno, qui sulla terra.
Ci dispiace ripeterci ma, quando cambieranno certe prassi, ci concederemo il lusso di volgere altrove la nostra attenzione. Appena una settimana fa parlavamo della “inesauribile voglia di fare degli statalisti“, in riferimento all’aumento delle partecipazioni pubbliche nelle imprese certificato dall’Istat nel Rapporto annuale dedicato a tale tema e appena pubblicato.
Appena due giorni dopo, il Corriere della sera diffondeva la notizia di un possibile ingresso di Invitalia nel capitale di Giochi Preziosi. Al momento, è opportuno precisarlo, si tratta di indiscrezioni: se fossero confermate, però, ci sarebbe poco di cui stupirsi. C’è una tendenza dalla quale il governo sembra intenzionato a non deviare. Solo per citare le ultime manovre di Invitalia, ricostruite da Start Mag, lo Stato è entrato - tra l’altro - “nella catena di abbigliamento Coin, nelle Terme di Chianciano, nel produttore di treni passeggeri Firema e nel progetto di rilancio dello stabilimento ex Ferrosud di Matera”.
Cosa hanno in comune queste vicende aziendali, a cui se ne aggiungono altre? Da una parte, non si tratta di interventi pubblici che vanno a controbilanciare ipotetici fallimenti di mercato. Dall’altra, si tratta di operazioni emergenziali, che però difficilmente possono essere ascritte alla categoria, per quanto plastica, della “strategicità”. Per intenderci, nessuna di esse è l’ex Ilva, la cui chiusura potrebbe avere impatti occupazionali e non solo giganteschi (e su cui pure ci sarebbe molto da dire). Quelle citate, e altre ancora, sono crisi industriali “ordinarie”: sono imprese che faticano a reggere la concorrenza per ragioni che possono essere le più diverse (dalle mutate preferenze dei consumatori all’arrivo di concorrenti più agguerriti, dagli errori del management al crescente impatto dei costi della regolazione). In un paese normale, se un’impresa non è più in grado di finanziare le sue attività, passa di mano oppure chiude. In entrambi i casi, capitale e lavoro vengono trasferiti ad altre imprese, che presumono di poterne fare un uso più produttivo. Si chiama “distruzione creatrice”: è poco piacevole per chi è direttamente coinvolto nel processo, ma è uno dei motori del progresso.
L’impiego diffuso dei capitali pubblici per impedire il fallimento o la vendita di imprese in crisi non è solo un tratto culturale del nostro paese e della sua amministrazione pubblica: è precisamente una delle cause del declino, e non la meno importante. Come dimostra il libro di Nicola Rossi, Un miracolo non fa il santo, l’Italia ha perso nel corso dei decenni dinamismo imprenditoriale: il nostro tessuto economico ha visto gradualmente scemare la capacità di generare nuove imprese. Ma questo è proprio (tra l’altro) la conseguenza dell’avversione per il fallimento: se i fattori della produzione rimangono incagliati in utilizzi poco produttivi, se le norme e l’azione pubblica sono finalizzate a impedirne la riallocazione, allora è inevitabile che l’economia nel suo complesso perda qualunque spinta innovativa.
Non si contano gli appelli di politici e intellettuali per la ripresa della produttività: ma la stagnazione non è una condanna del cielo, è l’effetto inevitabile delle scelte politiche assunte concretamente, giorno dopo giorno, qui sulla terra.
Aggiornato il 27 maggio 2025 alle ore 11:20