Un’Italia più vecchia, povera e sfiduciata

Fotografare una società è sempre difficile e comunque esige che si adotti un punto d’osservazione. Nel suo costante sforzo di descrivere l’Italia e le trasformazioni che essa conosce, quest’anno l’Istat ha riservato un notevole spazio alle questioni demografiche, e non solo per evidenziare come il nostro Paese sia ormai tra i più anziani e con indici di natalità molto bassi.

In Italia ci sono sempre meno matrimoni, anche perché il fisco e in senso generale l’intero ordinamento li disincentivano. Per giunta, le famiglie hanno dimensioni sempre più modeste: questo è conseguenza di tanti fattori (anche culturali), ma un ruolo è giocato anche dal fatto che il reddito medio reale del 2024 è addirittura inferiore a quello di vent’anni fa. In tale mutato scenario lo stesso trasferimento delle imprese da genitore a figlio è spesso problematico, quando non impossibile. La questione risulta particolarmente grave se si considera che il 44% degli imprenditori italiani ha più di sessant’anni.

Per giunta, secondo il rapporto annuale circa un quarto della popolazione è a rischio povertà e questo dato al Sud è del 40%. Il disagio di larga parte del Mezzogiorno rimane uno dei grandi problemi irrisolti, anche perché quando lo si è preso in esame si è sempre fatto ricorso a politiche dirigiste e assistenziali, focalizzate sullo Stato e non sul mercato.

Se un dato positivo sembra venire dall’aumento del numero dei laureati, va aggiunto che rimaniamo comunque in fondo alla classifica in Europa e per di più - nell’arco di dieci anni - ben centomila di quanti hanno ottenuto un titolo universitario sono poi andati all’estero, dove un minore indebitamento (statale e previdenziale) aiuta a garantire redditi migliori.

Una considerazione analoga, nel dossier, è riservata all’occupazione, che cresce ma continua a restare molto bassa. Non bastasse questo, una larga parte degli occupati è utilizzata in attività modeste, che non esigono qualificazione e che non assicurano redditi elevati. I due dati sono correlati, perché è evidente che esiste un rapporto tra la formazione scolastica e la produttività, e di conseguenza anche tra il numero dei laureati e il livello delle retribuzioni.

Nel commentare l’analisi complessiva dell’Istat e la stessa relazione del suo presidente, Francesco Maria Chelli, una parte della stampa ha giocato a esaltare l’attuale governo (sottolineando talune luci) oppure a denigrarlo (evidenziando le molte ombre). In verità, la rappresentazione che l’Istat ci offre ha radici profonde e quindi chiama in causa le diverse famiglie politiche, dato che quasi nessuno sembra avere il coraggio - o quanto meno non l’ha avuto in passato - di prendere sul serio in considerazione i veri problemi di questa Italia declinante.

Negli ultimi decenni la politica italiana ha puntato molto sull’intervento pubblico, sulla regolazione e sui meccanismi redistributivi. Ora si trova a fare i conti con una società invecchiata, impoverita e in cui troppo pochi sono quanti studiano. Sarebbe il caso di cambiare strada.

(*) Direttore del dipartimento di Teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 26 maggio 2025 alle ore 09:31