La legge calabrese emblema di un male nazionale

Non solo in Calabria: l’Italia continua a soffocare il turismo con vincoli, classificazioni obbligatorie e controlli soffocanti. Un’occasione persa per liberare l’iniziativa privata

L’Italia è il Paese delle meraviglie turistiche e dei paradossi burocratici, dove nulla sfugge al bisogno di essere regolato, autorizzato, classificato. Nemmeno il turismo, settore che dovrebbe vivere di creatività, libertà e innovazione. Mentre il mondo corre verso formule sempre più agili e aperte, nel Belpaese si moltiplicano leggi che in nome della “qualità” irrigidiscono il mercato e affossano chi vorrebbe semplicemente lavorare. Come ha insegnato Ludwig von Mises, l’interventismo rappresenta una tendenza radicata nelle logiche del potere: è la malattia professionale di chi governa, di chi amministra, di chi comanda, perché incapace di concepire una società fondata sulla libera iniziativa. E in Italia questa patologia si è trasformata in prassi consolidata.

La Calabria, con la Legge Regionale n. 14 del 18 marzo 2025, ha deciso di seguire il copione. E lo fa alla perfezione: proclama, da un lato, di voler “favorire e sostenere il turismo all’aria aperta quale strumento di sviluppo economico e di valorizzazione territoriale” (articolo 1, comma 1), ma in realtà aggiunge, dall’altro, nuovi vincoli, nuove procedure, nuovi obblighi. Non libertà, ma burocrazia. In sostanza, non fiducia nell’iniziativa privata, bensì centralismo amministrativo. Un riflesso perfettamente coerente con il male che affligge tutto il Paese.

Non si tratta, infatti, di un caso isolato. La legge calabrese si inserisce in una lunga sequenza di interventi restrittivi che il medesimo ente ha adottato nel tempo. Già con la legge n. 8 del 2008 sono stati introdotti standard stringenti e una pianificazione turistica accentratissima. La legge n. 34 del 2018, a sua volta, ha esteso la logica della classificazione burocratica anche alle strutture extralberghiere. E anche la legge urbanistica n. 19 del 2002, modificata nel 2016, ha pure contribuito a porre ostacoli significativi allo sviluppo delle strutture ricettive.

Ma la Calabria non è sola. Anche in altre regioni si moltiplicano norme che, con il pretesto della regolamentazione, ostacolano la libertà d’impresa. In Toscana, il piano del paesaggio ha imposto limitazioni perfino alle attività agrituristiche. In Emilia-Romagna e in Liguria, regolamenti sempre più rigidi hanno ridotto gli spazi di flessibilità per campeggiatori e gestori. In molte città italiane, da Firenze a Venezia, si è scelto di introdurre limiti all’ospitalità turistica in nome del decoro, della residenza o del quieto vivere, sacrificando l’iniziativa privata sull’altare di un controllo sempre più invasivo.

È una deriva regolatoria, che rinviene nella nuova legge calabrese un caso emblematico. Qui l’approccio iper-normativo si manifesta nella pretesa di disciplinare ogni aspetto della vita dei campeggi, dei villaggi turistici e dei villaggi-camping. La legge dispone, ad esempio, che “la superficie minima delle piazzole di sosta non può essere inferiore a 30 metri quadrati” (art. 5, comma 2, lettera a), imponendo così standard rigidi che non tengono conto della varietà delle offerte possibili. I servizi igienico-sanitari, poi, devono prevedere “almeno un lavabo, una doccia e un wc ogni venti persone” (art. 5, comma 3, lettera b), mentre “una superficie pari ad almeno il 20 per cento dell’area complessiva deve essere destinata a verde” (art. 5, comma 4).

Queste previsioni, come appare evidente, trasformano l’imprenditore da soggetto libero a mero esecutore di disposizioni burocratiche, soffocando qualsiasi margine di flessibilità. L’idea che la domanda e l’offerta possano adattarsi liberamente ai gusti, alle esigenze e alle innovazioni viene sacrificata sull’altare di un’organizzazione amministrativa onnipresente.

Non basta. A quanto prima indicato, si aggiunge l’obbligo di classificare le strutture da una a cinque stelle, in base a criteri stabiliti dalla regione stessa: “Le strutture turistico-ricettive all’aria aperta sono classificate da una a cinque stelle” (art. 6, comma 1). Si impone così un sistema che spinge verso l’omologazione, scoraggiando formule diverse o alternative. La possibilità di offrire esperienze turistiche originali, essenziali o fuori dagli schemi viene di fatto penalizzata, a vantaggio di modelli standardizzati che rispondono più alla logica dei regolamenti che a quella del mercato.

Ma vi è ancora di più. La gestione dell’attività è ulteriormente complicata dalla necessità di presentare la Scia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) (art. 7, comma 1) e dalla previsione di continue attività di “vigilanza e controllo da parte della Regione e dei Comuni” (art. 9, comma 1). Il principio di libertà d’impresa viene così sostituito da una cultura della sospettosità e dell’intervento costante dell’apparato pubblico.

Particolarmente grave risulta persino la disciplina transitoria. Le strutture esistenti, già operative e spesso frutto di investimenti cospicui realizzati sotto un diverso quadro normativo, sono obbligate ad adeguarsi: “Le strutture esistenti devono conformarsi ai requisiti strutturali e funzionali previsti dalla presente legge entro ventiquattro mesi” (art. 10, comma 1). Un obbligo che non tiene in alcuna considerazione il principio di tutela dell’affidamento e della certezza del diritto, cardini di qualsiasi ordinamento rispettoso della libertà economica.

Il quadro che emerge è chiaro: la Calabria non punta sulla responsabilità individuale, sulla capacità degli operatori di innovare e di rispondere alle esigenze della clientela. Al contrario, continua a credere in un modello amministrativo di sviluppo, in cui l’autorità pubblica detta tempi, modi, criteri e contenuti dell’attività privata.

Una concezione ancorata a una mentalità premoderna delle dinamiche sociali ed economiche e profondamente illiberale, che ignora il principio fondamentale secondo cui il mercato turistico, come ogni altro mercato, si sviluppa meglio quando gli operatori sono liberi di offrire prodotti diversificati, e i consumatori sono liberi di scegliere secondo le proprie preferenze. Tentare di disciplinare rigidamente forme e contenuti dell’offerta turistica significa irrigidire un settore che, per sua natura, vive di varietà, adattabilità e sperimentazione.

In questo senso, la legge regionale in esame rappresenta l’ennesima occasione mancata. Avrebbe potuto limitarsi a fissare cornici generali – sicurezza, igiene, rispetto ambientale – lasciando il resto all’iniziativa privata. Avrebbe potuto favorire la concorrenza tra modelli diversi, lasciando che fossero i clienti a decretarne il successo o il fallimento. Avrebbe potuto, in altre parole, fidarsi della libertà. Ma non lo ha fatto né pensato di farlo.

Come ha ammonito Friedrich A. von Hayek, credere che lo sviluppo di una società complessa possa essere interamente guidato da norme e direttive statali significa ignorare la natura spontanea dei processi sociali ed economici. È proprio questa presunzione di poter dirigere ogni aspetto della realtà con strumenti legislativi che alimenta una deriva autoritaria e ostacola la libertà individuale.

Ancora una volta, in Calabria come altrove, l’illusione prevale sulla libertà. E il turismo, anziché volare sulle ali dell’iniziativa privata, rischia di inciampare nelle maglie strette della burocrazia.

Aggiornato il 07 maggio 2025 alle ore 12:32