La tempesta dei dazi e le prospettive per l’Europa

Novanta giorni all’alba?

Noi europei pensiamo sempre di essere più sofisticati dei nostri cugini d’Oltreoceano, e per questo in molti hanno visto i dazi di Donald Trump, imposti e poi sospesi all’universo mondo con l’eccezione della Cina, come la mattana di uno squilibrato entrato alla Casa Bianca per un caso della storia.

Non è prudente né saggio liquidare così il Presidente degli Stati UnitiStrategia e obiettivi potrebbero chiarirsi nelle prossime settimane. Trump ha probabilmente innescato una recessione e senz’altro ha portato i mercati azionari sull’ottovolante. Anche in questo caso, è bene ricordare, come abbiamo fatto tante volte in altre occasioni, che le borse non sono depositi di banconote che prendono fuoco. La ricchezza “bruciata” può “s-bruciarsi”, non è un processo analogo alla combustione, i valori scelgono e salgono. È importante che essi possano cambiare, che vuol dire che è importante pure che possano scendere: l’andamento delle azioni riflette le prospettive che si vanno delineando sulla performance di una certa impresa o, come in questo caso, sul futuro che ci attende.

Il Presidente Usa, gli va riconosciuto, si è scrupolosamente attenuto alle sue promesse elettorali. Ma, facendolo, non ha solo stupito gli operatori: ha anche seminato incertezza. La sospensione di 90 giorni dà un sollievo di breve termine ma cambia poco. Il possibile punto di caduta, cioè la guerra commerciale con un unico fronte: quello cinese, non dovrebbe indurre nessuno a un sospiro di sollievo, visto quanto interconnesse sono la prima e la seconda economia del mondo.

Per ora Trump è stato fermato non tanto dalle borse, ma dal terremoto sui titoli di Stato americani, fino a ieri considerati un safe asset. Ciò ha portato a un rimescolamento nelle carte dei consiglieri del Presidente, mettendo in ombra alcuni dei “dazisti” più accesi a vantaggio del ministro del Tesoro, Scott Bessent, uomo d’esperienza e di finanza. Bessent, che non è nato ieri, ha ovviamente fatto buon viso a cattivo gioco e dichiarato che tutto sta andando secondo i piani. Ma è abbastanza evidente che nella amministrazione americana, come in qualsiasi gruppo politico, del resto, si fronteggiano squadre diverse e da quale vincerà dipende qualcosa di più che il futuro degli Stati Uniti.

I prossimi 90 giorni sarebbero importantissimi, se le classi dirigenti dei diversi Paesi li sapessero sfruttare. La fretta può essere, una tantum, una saggia consigliera e portare a stringere nuovi accordi di libero scambio, più vantaggiosi degli attuali. Ma attenzione: gli stessi gruppi di pressione che si sono recentemente riscoperti liberoscambisti, qualora ci si sedesse al tavolo delle trattative, tireranno fuori tutta una serie di eccezioni e richieste di regimi privilegiati.

Quando negoziava il trattato commerciale con la Francia, Richard Cobden notava che c’era sempre “qualche piccola industria, che dà impiego a pochi dipendenti e dispone di esiguo capitale” con “la pretesa di un alto livello di protezione”. Anziché cedere alle loro richieste, suggeriva, “meglio affittare a loro beneficio qualche elegante appartamento nell’Hotel del Louvre e mantenerli a spese della nazione con cacciagione e champagne per il resto dei loro giorni”. Era vero nel 1860, lo è anche oggi. Giusto reagire al protezionismo all’ingrosso, ma ricordiamoci che quello al dettaglio può fare altrettanti danni.

(*) Tratto dall’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 14 aprile 2025 alle ore 15:08