La guerra dei dazi, il lavoro e la propaganda

L’emergenza è una condizione psicologica che, se da un lato stimola le capacità reattive dell’essere umano, dall’altro favorisce la perdita di razionalità. “Le masse non hanno mai avuto sete di verità. Chi può fornire loro illusioni diviene facilmente il loro comandante” Gustave Le Bon. Quando l’emergenza diventa una cultura, a nostra insaputa, perché considerata condizione normale di vita, avviene una manipolazione di massa, nella quale il ruolo di regista lo esplicano i mass media ma anche tramite i social che si distinguono per la confusione contradittoria del flusso inarrestabile dei messaggi, nei talkshow televisivi (dove le liti, presentati per informazione, sono all’ordine del giorno).

La propaganda martellante e la confusione che questi suscitano sono la miscela giusta per mantenere viva l’emergenza, che basa la sua forza sulla paura. Certamente coloro che ne sono coinvolti non percepiscono la paura, ma sua sorella che si chiama “ansia”, “preoccupazione per il futuro” etc.

Questo preambolo è utile per comprendere come siamo passati dall’emergenza terrorismo, virus, guerra e oggi all’emergenza dazi.

Non sono un economista, ma sociologo ed ex sindacalista della Cgil e in questi anni di seconda repubblica, che coincide con il globalismo, abbiamo assistito alla delocalizzazione delle imprese, da nazioni ricche in paesi dove i diritti e il salario sono inferiori, per poi riportare il prodotto finito nel paesi occidentali determinando o una concorrenza sleale per quelle imprese che non hanno delocalizzato (obbligandole alla chiusura o alla diminuzione dei salari) o aumentando il solo profitto dell’azienda a scapito dei lavoratori,  senza produrre un benessere per il Paese o per i dipendenti, che di norma o sono stati licenziati o sono passati a carico della collettività.

Aldilà di un raffinato colonialismo spacciato per sviluppo dei paesi interessati, nei fatti è un modo moderno di sfruttamento dei popoli in via di sviluppo. La globalizzazione, nei fatti, è un dumping (svuotamento) sociale e fiscale (il dumping è una forma di concorrenza sleale poiché i prodotti vengono venduti ad un prezzo che non rispecchia in modo accurato il costo di produzione) operato dalle multinazionali e dalla finanza, e per paradosso, ciò avviene anche in Europa, ad esempio con la delocalizzazione delle sedi legali in paesi che hanno tasse più basse, senza che questo comporti un beneficio né per i lavoratori né per il Paese che perde la sede legale.

Il Dumping sociale, è il mancato rispetto delle leggi in materia di sicurezza, diritti del lavoratore e tutela ambientale, che consente a un’impresa di ridurre i costi di produzione e quindi di vendere le proprie merci a prezzi molto più bassi di quelli di mercato. 

Il termine “dazio”, invece, indica un’imposta indiretta che viene applicata a beni che attraversano un confine. “Il dumping rappresenta un potente strumento di lotta commerciale per la conquista di mercati esteri, ma provoca, in genere, l’erezione di barriere doganali difensive, i dazi sono degli antidumpingsi legge sulla Treccani.

Questo per dire che l’attuale crisi dei dazi ha una doppia strategia:

1) Togliere dalle prime pagine la guerra con l’Ucraina e la guerra in medio oriente, visto le castronerie che la classe politica occidentale ha urlato su questo tema “Putin è pazzo” Putin è malato” nascondendo i veri motivi delle due guerre cioè controllo economico di beni materiali per le multinazionali.

2) Ridisegno degli equilibri internazionali mediante una strategia economica di cui i dazi cosi vituperati sono la medicina per combattere una delocalizzazione selvaggia, dove per profitto si sono chiusi gli occhi ai diritti dei lavoratori.

Lo stesso Wto così propagandato come una conquista democratica esprime di fatto una concezione Tayloristica della produzione a livello internazionale a scapito dei lavoratori dei vari popoli: quando in esso si afferma che “i vantaggi comparativi dei paesi non dovrebbero essere messi in discussione a causa di queste norme (del lavoro)” il Wto riconosce che i paesi hanno diverse specializzazioni naturali basate sulla loro produttività relativa, e che il commercio basato su questi vantaggi è positivo per l’economia globale.

L’obiettivo è evitare che le preoccupazioni per gli standard del lavoro vengano utilizzate come pretesto per politiche protezionistiche che limiterebbero il commercio e i suoi benefici. Se non è sfruttamento coloniale con la complicità dei vari governi locali cos’è?

Non si vuole qui demonizzare il profitto, ma l’organizzazione umana si distingue per una sua funzione sociale che molti economisti ed imprenditori dimenticano.

Le emergenze di cui nessuno parla è che fine ha fatto la politica?  La democrazia, con la trasparenza e il pluralismo? Come ci difendiamo dalla aggressività della finanza e dei mercati senza regole? Come possiamo tutelare la stampa e i giornalisti dal fare propaganda?

Aggiornato il 11 aprile 2025 alle ore 12:29