
Le operazioni sui dazi del presidente Donald Trump mostrano con evidenza gli squilibri economici e sociali degli Stati Uniti e il tentativo di aggredire un debito pubblico quasi fuori controllo con tagli alla spesa ed entrate fiscali derivanti dai dazi per contribuire al rallentamento del debito stesso. Il debito degli Usa ormai si avvicina ai 35mila miliardi di dollari con una spesa per interessi annua di circa mille miliardi di dollari, superiore per la prima volta nella loro storia alla spesa per la Difesa che è di 850 miliardi. Il Pil si attesta verso i 28mila miliardi di dollari con una minore dinamica di crescita del debito. E la debolezza della situazione si riflette sulla tenuta del dollaro, l’insieme dei fatti può rendere più difficile la collocazione del debito sui mercati internazionali che fino ad ora ha consentito agli Usa di vivere sopra i propri mezzi.
Questa discesa verso uno squilibrio nei conti e verso un sistema sociale che mostra sempre più evidenti segni di disgregazione, con continui fatti esemplificativi di un disagio sociale al limite del controllo, è iniziata in modo progressivo dopo la caduta del muro di Berlino che ha fatto credere all’onnipotenza di un modello socioculturale che sembrava non avesse ostacoli. Per celebrare questo evento storico il politologo Francis Fukuyama scriveva il libro: La fine della storia senza capire i tempi e i ritmi della storia e come essa sempre si ripete in modalità diverse ma costanti; mai profezia tanto celebrata si è rivelata un drammatico inganno. I prodromi dell’attuale dissesto monetario e finanziario si collocano nel 1971 quando Richard Nixon e il sottosegretario del Ministero del Tesoro per gli affari monetari internazionali Paul Volcker dichiararono la fine del gold exchange standard, trasformando magicamente il dollaro in oro. La fine del modello monetario che aveva sostenuto la ripresa del dopoguerra finiva con la separazione della stampa della carta moneta da un valore sottostante come l’oro lanciando la stampa di carta moneta nell’iperuranio della finanza infinita. I rischi di svalutazione del dollaro portarono alla creazione del petrodollaro ed a quella del sistema Swift nel 1973, che di fatto furono i presupposti per dare al dollaro il ruolo di moneta egemone negli scambi internazionali non essendoci al tempo reali forze in contrapposizione.
Da quel tempo si è avviata la rivoluzione finanziaria che ha finito per destabilizzare il sistema occidentale; la spinta alla massimizzazione della ricchezza ha giustificato la ricerca esasperata della riduzione dei costi di produzione che ha portato ad appaltare all’est asiatico il sistema manifatturiero americano che era la loro forza. Il dato più evidente è il calo della percentuale di addetti alla manifattura, che è passato dal 40 per cento della fine degli anni Ottanta al 10 per cento attuale. A favore dei posti nel settore terziario – banche, assicurazioni, finanza e servizi – che mostra oggi l’estrema finanziarizzazione dell’economia reale. Tutto è stato fatto per fare crescere i dati del mercato borsistico e le aspettative di crescita infinita delle quotazioni; gli stessi principi contabili sono stati stravolti per gonfiare gli indici di borsa. Infatti era concesso di inserire tra i ricavi, gonfiandoli, anche le aspettative di futuri guadagni. Quando il vento è girato dopo il fallimento Lehman Brothers e le aspettative sono diventate negative, il sistema è andato in loop anticipando le aspettative di future perdite.
Quindi il taglio dei costi e dell’economia reale ha finito per erodere la reddittività del sistema che ha sempre confidato sul ruolo del dollaro come moneta di riferimento globale. Fino a quando l’ex-terzo mondo è diventato alternativo, e con i Brics è cominciata la guerra monetaria della dedollarizzazione; le transazioni internazionali in dollari sono passate dal 79 per cento al 57 per cento nel giro degli ultimi cinque anni e la dinamica gioca a loro favore. Di fronte a questa situazione diventa molto più difficile sostenere il rifinanziamento del debito Usa tramite la collocazione di un volume crescente di debito sui mercati internazionali, con il conseguente rischio di un processo di svalutazione del dollaro.
In questo contesto di difficoltà si sono inseriti i dazi di Trump alla disperata ricerca di riduzione di costi con azioni spesso slegate fra di loro che stanno provocando un crescente disagio sociale con l’aumento della disoccupazione del tenore di vita degli americani. I dazi verso i Paesi esteri per recuperare un incremento delle entrate fiscali finiscono per avere un effetto sui maggiori costi dovuti al riacquisto delle produzioni appaltate ad altri Paesi, sulla dinamica inflazionistica e sulla debolezza del dollaro stesso. I precedenti esperimenti di azione sui dazi hanno sempre avuto un esito negativo, e anche il taglio delle spese non può avere effetti immediati sui conti pubblici e la scommessa di riportare in patria le produzioni appaltate all’estero ha tempi di realizzazione ed esiti estremamente incerti. Comunque non compatibili con i tempi brevi necessari a contenere l’esplosiva crescita del debito pubblico.
L’idea presentata di fare ricorso alle criptovalute sembra l’ennesima scommessa di una fantafinanza che si trova ora allo scoperto. Così mentre prima si è cambiato l’oro in dollari ora si vorrebbe cambiare il dollaro in bitcoin, che sembra un’operazione da illusionisti, ma dimostra la gravità della situazione che non sembra in breve tempo rimediabile. Perché il confronto con altre valute nel sistema globale sembra più debole rispetto a prima così come sta diventando il dollaro. Nel 2025 la Banca centrale della Cina ha integrato il proprio sistema di pagamento transfrontaliero, così il blocco economico che rappresenta quasi il 40 per cento del commercio globale ha iniziato a regolare i propri scambi internazionali senza passare dalla rete bancaria dello Swift, con un’infrastruttura monetaria alternativa, e diventerà una prassi operativa che coinvolge i Brics e il commercio tra Asia, Golfo Persico, Africa e parte del Sudamerica.
Il mondo occidentale si trova davanti a eventi che da tempo erano visibili ma sono sempre stati ignorati per supponenza, mancanza di cultura storica e ignoranza. Un mix esplosivo di incompetenza e di mancanza di pensiero. Sarebbe stato necessario prendere atto in tempo delle evoluzioni della storia che già dopo la crisi di Lehman Brothers avevano cominciato ad evidenziare una progressiva decadenza del mondo e del sistema socioculturale dell’Occidente. Che si è trovato privo di pensiero e di figure-leader capaci di spingere sulla creatività e sul cambiamento. È mancato il “pensiero” di cui l’uomo dimostra sempre di avere paura, come ricorda Bertrand Russel: “L’uomo ha più paura del pensiero che di ogni altra cosa al mondo: più della propria rovina, persino più della morte. Il pensiero è sovversivo e rivoluzionario, distruttivo e terrificante; il pensiero è implacabile nei confronti del privilegio, delle istituzioni ufficiali, delle comode abitudini; il pensiero è anarchico e senza legge, indifferente all’autorità, incurante della ben collaudata saggezza del passato (…) Ma, perché il pensiero divenga possesso di molti, anziché privilegio di pochi, dobbiamo farla finita con la paura. È la paura a impastoiare gli uomini: il timore che le loro amate credenze si rivelino illusorie, che le istituzioni grazie alle quali campano si dimostrino dannose, che essi stessi si manifestino meno meritevoli di rispetto di quanto non avessero supposto”.
(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano
Aggiornato il 09 aprile 2025 alle ore 12:55