Manzoni, i dazi e l’illusione del protezionismo

Nei Promessi Sposi, il maestro del romanzo storico italiano condanna i calmieri e l’intervento dei pubblici poteri nel mercato: una lezione che oggi vale per le guerre doganali e il neoprotezionismo globale.

Quando Alessandro Manzoni ha scritto I Promessi Sposi, non ha composto soltanto un romanzo storico e un capolavoro della prosa italiana, ma anche un’opera percorsa da un pensiero economico lucido e sorprendentemente attuale. Infatti, la sua condanna delle politiche interventiste, la critica alla regolazione autoritaria dei prezzi, la valorizzazione del libero commercio e della circolazione delle merci non appartengono solo al XVII secolo in cui il romanzo è ambientato, ma parlano anche al nostro tempo. Manzoni non fu un teorico economico in senso stretto, ma il suo sguardo da scrittore illuminato rivelò le distorsioni che il potere politico, con le sue buone intenzioni, produce quando impone vincoli al mercato.

Nel capitolo XVII del romanzo, il protagonista Renzo, in fuga da Milano dopo i moti per il pane e l’assalto al forno delle grucce, trova rifugio a Bergamo grazie all’aiuto del cugino Bortolo. Il narratore, in un passo emblematico, paragona la situazione tra le due città, evidenziando il diverso approccio delle autorità. Nel centro meneghino, la politica dei calmieri e il blocco del mercato avevano generato carestia e disordini; nella città orobica, soggetta alla Repubblica di Venezia, invece, si lasciava circolare il grano, giacché “non s’era fatto, né si faceva il male di mettere un prezzo forzato al pane: e perciò non s’eran vedute qui niuna di quelle disgrazie, né si temeva di vederne”. La conclusione è inequivocabile: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

Questa frase, spesso citata, riassume il giudizio manzoniano sul governo economico: le autorità, per paura dell’opinione pubblica e delle pressioni, rinunciano alla ragione, dando spazio a misure dannose. I calmieri, i blocchi, le confische, i divieti di esportazione sono tutti esempi di un dirigismo cieco, che crea più danni che benefici. La Repubblica veneta, che lascia operare il mercato, si rivela più saggia di Milano, che invece interviene con la forza. Una lezione che il liberale Manzoni — perché tale fu sul piano economico — volle trasmettere in un linguaggio narrativo, senza trattati né statistiche, ma con l’efficacia della concretezza.

Oggi, cinque secoli dopo, la medesima logica dirigista si ripresenta sotto forme aggiornate, ma altrettanto dannose. I dazi doganali, imposti con il pretesto di “proteggere” la produzione interna, rappresentano una delle più evidenti manifestazioni contemporanee di quell’antico errore. È quanto sta accadendo con l’iniziativa di Donald Trump di una nuova ondata di tariffe generalizzate: il 10 per cento su tutte le importazioni, con percentuali più alte per alcuni paesi. 34 per cento per la Cina, 24 per cento per il Giappone, 20 per cento per l’Unione Europea e 10 per cento per il Regno Unito, misure definite “reciproche” e presentate come strumento per correggere uno squilibrio commerciale percepito. Il meccanismo è sempre lo stesso: trattenere ricchezza all’interno, limitare la concorrenza estera, pianificare gli scambi. Ma il risultato, proprio come accadde nella Milano nel Seicento, è l’aumento dei prezzi, la carenza di beni, il rallentamento dell’economia. Nonostante le critiche sollevate dagli stessi settori industriali americani, il presidente americano ha ribadito che la difesa della manifattura nazionale resta una priorità assoluta. L’Unione Europea ha immediatamente bollato queste decisioni come “ostili” e “ingiustificate”, dichiarando di essere pronta a reagire “senza linee rosse” e valutando ritorsioni tariffarie e restrizioni all’accesso delle imprese americane al mercato interno. L’Australia, colpita anch’essa, ha espresso sorpresa e rammarico, definendo i dazi “non l’atto di un amico”, pur auspicando un confronto diplomatico per scongiurare un’escalation.

Anche ai giorni nostri, il “buon senso” suggerirebbe di lasciare che le merci circolino liberamente, che il consumatore scelga ciò che preferisce, che il produttore sia incentivato non dalla protezione ma dall’innovazione. Ma il “senso comune”, quello che invoca sovranità alimentare, autarchia energetica, difesa delle produzioni locali, si impone con forza, spinto dal consenso immediato e da una retorica della sicurezza che non regge alla prova dei fatti.

Se il celebrato scrittore milanese tornasse tra noi, troverebbe familiare questo scenario. Vedrebbe nel protezionismo odierno le stesse identiche logiche che condussero alla rovina capitale seicentesca del ducato milanese: l’illusione che si possa “aggiustare” il mercato con decreti, che si possa regolare il prezzo del pane (o del microchip) come si regola una leva. E ancora una volta ammonirebbe che quelle misure nascono non dalla razionalità, ma dalla paura. Paura della concorrenza, del cambiamento, della libertà.

“Gli è un guaio che nasce da un altro guaio”, osserva più avanti nel romanzo, riassumendo con chiarezza il meccanismo perverso delle decisioni sbagliate che si rincorrono. Così è per le distorsioni causate dai dazi: una misura oggi, una ritorsione domani, un sussidio dopodomani, e il circolo vizioso si alimenta, sostenuto da politici che pensano al consenso immediato più che al benessere duraturo. Eppure la lezione è chiara: quando si lasciano agire le forze spontanee della domanda e dell’offerta, l’ordine si ristabilisce da sé, senza bisogno di interventi correttivi che si trasformano in nuove storture.

In questo, Manzoni anticipa le riflessioni dei grandi economisti liberali che verranno dopo: da Bastiat a Hayek, da Mises a Buchanan. Ma lo fa con il linguaggio della narrazione, con la potenza dell’esempio, con la forza delle storie vere. Ci mostra, senza prediche, che la libertà economica è parte della libertà umana, e che ogni volta che il potere decide di sostituirsi alla scelta individuale, apre la strada a disastri prevedibili.

Nel Seicento, la carestia e i tumulti; oggi, l’inflazione, la stagnazione e la perdita di competitività. I secoli cambiano, ma le illusioni restano. È il pensiero liberale che continua, invece, a indicare la via. Anche quando il senso comune vorrebbe farlo tacere.

Aggiornato il 04 aprile 2025 alle ore 10:46