Gli aiuti statali per rilanciare la filiera automotive distorcono la concorrenza, impedendo ai consumatori e alle imprese di beneficiare di una vera competizione
Nell’ambito della Manovra 2025, il Governo ha preannunciato lo stanziamento di 750 milioni di euro per il settore automobilistico, risorse che, come ha dichiarato Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy: “Saranno rivolte tutte a supportare le imprese e i loro investimenti” e non più quindi agli incentivi per “l’acquisto di auto”. La misura, descritta come un tentativo di sostenere la filiera e stimolare l’innovazione, rischia però di rivelarsi un boomerang, oltre che costituire una manipolazione del mercato che ostacola la libera concorrenza e limita il potere decisionale dei consumatori.
In un mercato autenticamente libero, infatti, la domanda e l’offerta sono il risultato naturale delle preferenze dei consumatori e delle capacità produttive delle imprese. Le relative dinamiche premiano chi offre i migliori prodotti al prezzo più competitivo, incentivando innovazione, efficienza e qualità. Quando lo Stato interviene con sussidi diretti, altera questo equilibrio, creando condizioni artificiali che finiscono per penalizzare i più meritevoli.
Né può ritenersi che destinando fondi pubblici alle aziende si incentiva necessariamente l’innovazione, come spesso si sostiene. È vero piuttosto il contrario, atteso che essi forniscono una copertura per mantenere in vita quelle che potrebbero non essere competitive sul mercato, sottraendo risorse ad altre attività potenzialmente più produttive. È in pratica un sistema che premia la dipendenza dal potere politico piuttosto che la capacità di competere autonomamente. E ciò non solo è ingiusto nei confronti di chi opera senza aiuti, ma crea un pericoloso precedente che disincentiva l’efficienza a lungo termine.
Altrettanto criticabile è la scelta di escludere incentivi diretti alla domanda, come i bonus per l’acquisto di nuove auto, nonostante potrebbe sembrare una decisione corretta che, tuttavia, omette di affrontare il problema alla radice. Invero, sostenere la domanda o l’offerta, in qualsiasi forma, significa interferire con il naturale equilibrio del mercato, sottraendo centralità al consumatore. È solo attraverso le libere scelte degli individui che si possono orientare le strategie produttive in modo efficace e sostenibile. Ogni intervento che mira a controllarle o indirizzarle non fa altro che distorcere il ruolo fondamentale del medesimo consumatore come protagonista dell’economia.
A parte quanto già prospettato, vi è anche da considerare che la misura, come congetturata dall’Esecutivo, carica sulle spalle dei contribuenti il peso di una strategia economica inefficace. I fondi stanziati dallo Stato non cadono dal cielo: sono il frutto di tasse e prelievi che sottraggono risorse alla produttività individuale e collettiva. Ogni euro destinato a sostenere una filiera è un euro sottratto a chi avrebbe potuto spenderlo liberamente per i propri bisogni e preferenze. La vera ricchezza di un’economia sta nella libertà di scelta e nella capacità di innovare, non nel dirigismo che pretende di sapere meglio del mercato quali settori incentivare.
La politica italiana, come spesso accade, dimostra una visione miope, incapace di abbracciare i principi di un’economia autenticamente liberale. È il mercato, non lo Stato, il miglior regolatore delle attività economiche. Solo la concorrenza può garantire che le risorse vengano allocate in modo efficiente, premiando i migliori e stimolando i peggiori a migliorare o a cambiare strada.
Le imprese che ricevono aiuti statali, invece, non hanno bisogno di rispondere alle pressioni competitive: possono permettersi di restare inefficaci, sapendo che il sostegno pubblico coprirà i loro fallimenti. Come ha sottolineato Ludwig von Mises: “Ogni intervento governativo che distorce il mercato libera le imprese dalla necessità di adattarsi alla domanda dei consumatori, perpetuando inefficienze e distruggendo il meccanismo competitivo”.
Rebus sic stantibus, la strada da seguire è chiara: eliminare qualsiasi forma di intervento distorsivo e restituire al mercato il suo ruolo centrale. Le imprese devono essere incentivate a innovare non con sussidi, ma con una fiscalità equa, regole chiare e un sistema giudiziario che protegga i contratti e i diritti di proprietà. Altrettanto importante è ridurre la pressione fiscale sui cittadini, lasciando più risorse disponibili per i consumatori, che sono i veri protagonisti dell’economia.
L’Italia in definitiva non può continuare a credere che l’interventismo statale sia la panacea di tutti i mali e risposta ai problemi economici. La storia ha dimostrato che i modelli basati sull’interferenza della mano pubblica portano stagnazione e spreco di risorse: “Continuo a essere convinto che c’è ancora troppo denaro nelle mani pubbliche – ha scritto Sergio Ricossa – e che sottrarlo ai privati vuol dire aumentare lo spreco di denaro e derubare gli onesti”.
Un approccio liberale, al contrario, garantisce un sistema economico dinamico, capace di adattarsi e prosperare grazie all’innovazione e alla libertà. Non bisogna mai dimentica che non è lo Stato che crea la ricchezza, ma la creatività, la dedizione e la competizione tra individui e imprese. Il compito della politica dovrebbe essere quello di non ostacolare questo processo, lasciando che sia il mercato a fare il suo corso.
Aggiornato il 09 dicembre 2024 alle ore 13:11