Nel 1956, l’economista statunitense Milton Friedman elaborò un’idea che, nel corso dei decenni successivi, avrebbe suscitato dibattiti accesi in tutto il mondo: la flat tax. Si tratta di un sistema fiscale che abbandona la progressività, ossia l’incremento delle aliquote fiscali in relazione al reddito, in favore di una tassa unica e costante per tutti i contribuenti. Questo approccio si contrappone ai modelli di tassazione tradizionali delle economie avanzate, che generalmente prevedono aliquote crescenti in base al reddito delle famiglie e degli individui, nonché sugli utili delle imprese. La proposta di Friedman, che inizialmente non fu né ampiamente accettata né applicata, gettò comunque le basi per la successiva evoluzione dell’idea di una tassa piatta, che avrebbe fatto il suo ingresso in modo più concreto negli anni ‘80.
Un momento decisivo nella diffusione dell’idea di flat tax avvenne negli anni Ottanta, con la pubblicazione di un articolo sul Wall Street Journal, intitolato A Proposal to Simplify Our Tax System. In questo articolo, gli economisti Hall e Rabushka presentarono una proposta dettagliata per la sostituzione del sistema fiscale progressivo con un sistema ad aliquota unica, noto appunto come flat tax. L’idea centrale della proposta era quella di trattare tutte le forme di reddito (che siano da lavoro dipendente, da capitale o da altri investimenti) allo stesso modo, tassandole con una sola aliquota fissa, che in alcuni casi veniva proposta intorno al 19 per cento.
L’obiettivo era duplice: da un lato, evitare che i contribuenti cercassero di spostare i loro redditi da una categoria all’altra per ridurre l’imposizione fiscale; dall’altro, semplificare l’intero sistema tributario.
Un elemento distintivo del sistema proposto da Hall e Rabushka era la sua estrema semplicità. L’idea era che ogni cittadino potesse compilare autonomamente la propria dichiarazione dei redditi senza la necessità di un consulente fiscale, abbattendo così i costi e le complicazioni burocratiche. L’unica deduzione prevista era quella relativa al nucleo familiare, ossia una deduzione che sarebbe stata riconosciuta in base allo stato civile del contribuente e al numero di persone a carico, ma tutte le altre deduzioni (come quelle per spese sanitarie, educative o per interessi passivi su mutui) sarebbero state eliminate.
Secondo i sostenitori, questa semplificazione avrebbe garantito un sistema fiscale più equo, in cui la progressività sarebbe stata assicurata da una soglia di esenzione per i redditi più bassi, evitando così che i più poveri pagassero troppo. L’eliminazione delle deduzioni e delle detrazioni avrebbe anche avuto un effetto positivo sulla lotta all’evasione fiscale, riducendo le opportunità di elusione e semplificando il lavoro dell’amministrazione fiscale.
In questo schema, Hall e Rabushka distinguevano il reddito in due categorie principali: quello da lavoro dipendente e quello d’impresa. La divisione non era meramente formale, ma aveva un impatto concreto sul calcolo della base imponibile e sulla modalità di tassazione. L’obiettivo era trattare il reddito d’impresa separatamente, tassando i redditi prodotti dai datori di lavoro sui salari dei dipendenti ma senza differenziare le imposte tra le diverse categorie di reddito. La struttura del sistema fiscale si articolava in diverse fasi: innanzitutto, veniva determinato il reddito del contribuente (stipendio, salario o pensione), a cui veniva sottratta una deduzione personale, basata sullo stato civile e sul numero di persone a carico, per arrivare infine alla base imponibile. L’imposta veniva poi calcolata applicando la stessa aliquota (ad esempio, il 19 per cento) sulla base imponibile ottenuta.
L’imposta sulle attività produttive, che non colpiva direttamente le imprese in quanto tali, si sarebbe applicata ai proprietari delle imprese, alle società e a tutte le persone che avessero ricevuto reddito da attività produttiva, imponendo una tassa sul reddito al livello più vicino alla fonte che lo genera. La base imponibile, in questo caso, non prevedeva deduzioni per interessi passivi, dividendi distribuiti agli azionisti, fringe benefits o contributi previdenziali, il che avrebbe reso il sistema ancora più semplice e “pulito”. La tassa non sarebbe stata applicata solo alle società in senso stretto, ma anche a liberi professionisti, agricoltori, locatori e altre categorie di lavoratori autonomi, ampliando così la sua portata.
Questa proposta, sebbene mai attuata in modo pieno in una grande economia occidentale, ha avuto un impatto significativo sul dibattito economico e politico. Quali sarebbero stati, dunque, gli effetti concreti di un sistema fiscale come quello delineato da Hall e Rabushka?
In primo luogo, una tassa costante sui redditi tenderebbe a favorire i redditi più alti. Infatti, coloro che guadagnano cifre più elevate finirebbero per pagare un’imposta relativamente inferiore rispetto al sistema progressivo, in cui le aliquote crescono con l’aumento del reddito. Per la maggior parte della popolazione, che oggi paga già una buona parte delle imposte con il sistema progressivo, la flat tax non avrebbe comportato cambiamenti rilevanti: l’imposta sarebbe stata sostanzialmente la stessa. Tuttavia, chi percepisce redditi più bassi o medi potrebbe trovarsi a pagare un carico fiscale maggiore di quello che pagherebbe con il sistema progressivo, con un effetto redistributivo negativo per le classi meno abbienti.
Nel breve periodo, quindi, ci sarebbe probabilmente un calo delle entrate fiscali, con il rischio di un peggioramento dei conti pubblici. Anche se, come sostengono i fautori della flat tax, il sistema potrebbe portare a una minore elusione fiscale, a una maggiore efficienza economica e a un aumento dei consumi, questi effetti positivi non si materializzerebbero in tempi brevi. Infatti, la riduzione delle entrate fiscali potrebbe essere inizialmente maggiore degli effetti positivi che derivano da una maggiore semplicità del sistema e da un aumento della base imponibile.
Le critiche alla flat tax non sono mancate. Molti sostengono che la rimozione delle deduzioni e delle detrazioni colpirebbe principalmente i contribuenti a reddito medio-basso, che sono quelli che più frequentemente si avvalgono di queste agevolazioni fiscali. Questo sposterebbe il peso fiscale dalla fascia di reddito più alta a quella intermedia, con effetti regressivi piuttosto che progressivi.
Inoltre, l’effetto espansivo che la flat tax potrebbe avere sull’economia, aumentando il numero di lavoratori attratti da aliquote marginali più basse, potrebbe essere limitato, e gli effetti sulla crescita economica potrebbero non essere sufficienti a compensare la riduzione delle entrate fiscali.
Gli effetti sul bilancio pubblico e la Curva di Laffer
Quando si parla di flat tax e dei suoi effetti sul bilancio pubblico, uno degli aspetti più discussi riguarda l’impatto sulle entrate fiscali e, di conseguenza, sul debito pubblico. In un primo momento, l’introduzione di un sistema fiscale ad aliquota fissa potrebbe comportare una diminuzione delle entrate fiscali, poiché i redditi più alti pagherebbero una percentuale inferiore di tasse rispetto al sistema progressivo. Inoltre, l’eliminazione delle deduzioni e delle detrazioni, che spesso beneficiano i redditi medi e bassi, potrebbe aumentare il carico fiscale per queste fasce di reddito, senza però garantire una compensazione adeguata per le classi più povere.
Nel breve periodo, dunque, è plausibile che la flat tax possa determinare un calo delle entrate, con un rischio di aumento del debito pubblico, se lo Stato non riesce a compensare tale riduzione con altre forme di introiti.
Gli effetti positivi previsti dalla semplificazione fiscale, come la maggiore efficienza nell’incasso delle imposte e la riduzione dell’elusione fiscale, potrebbero non manifestarsi immediatamente. La riduzione della tassazione, infatti, può inizialmente ridurre il gettito, creando un “gap” che dovrà essere colmato, o con tagli alle spese pubbliche o con l’adozione di misure alternative per il finanziamento delle necessità statali.
La Curva di Laffer, però, ci offre un’importante chiave di lettura per comprendere i possibili effetti di una flat tax sul debito pubblico. La teoria della Curva di Laffer, proposta dall’economista Arthur Laffer negli anni ‘70, suggerisce che esista un punto ottimale di tassazione, oltre il quale aumentare le aliquote non comporta un incremento delle entrate fiscali, anzi, potrebbe addirittura ridurle. In altre parole, secondo Laffer, se le aliquote fiscali sono troppo alte, i contribuenti sono incentivati a ridurre la propria base imponibile attraverso l’elusione o addirittura l’evasione fiscale. Di conseguenza, un abbassamento delle aliquote potrebbe, al contrario, aumentare le entrate, favorendo una maggiore conformità fiscale e stimolando l’economia.
Nel contesto della flat tax, i fautori della proposta sostengono che una riduzione delle aliquote potrebbe spingere i contribuenti a dichiarare più reddito, e quindi a pagare più tasse, creando così un circolo virtuoso che, in teoria, porterebbe a un incremento del gettito fiscale. In altre parole, abbassando l’aliquota, si potrebbe ottenere una maggiore adesione al sistema fiscale, riducendo l’evasione e l’elusione e, infine, aumentando la base imponibile complessiva. Questo effetto sarebbe particolarmente rilevante nel caso di economie in cui le aliquote alte spingono i contribuenti a cercare vie per ridurre il proprio carico fiscale.
Tuttavia, l’applicazione della Curva di Laffer nella realtà è complessa. L’efficacia dell’effetto “Lafferiano” dipende da molti fattori, tra cui la propensione alla compliance fiscale dei contribuenti, l’elasticità della base imponibile e la capacità dello Stato di far rispettare la legge fiscale. Se il calo delle aliquote dovesse ridurre notevolmente le entrate senza stimolare un aumento della base imponibile, il rischio di un aumento del debito pubblico sarebbe concreto. Infatti, se i risparmi derivanti da una minore evasione fiscale non fossero sufficienti a compensare la riduzione delle aliquote, lo Stato potrebbe trovarsi nella necessità di fare ulteriori ricorsi al debito per finanziare il deficit.
Inoltre, l’effetto di una flat tax sulle entrate pubbliche potrebbe non essere immediato. Sebbene le aliquote più basse possano stimolare l’attività economica, i cambiamenti nel comportamento dei contribuenti e l’efficacia delle riforme fiscali impiegherebbero del tempo per manifestarsi pienamente.
Nel frattempo, il rischio di un “buco” nelle entrate fiscali potrebbe obbligare lo Stato ad adottare misure di emergenza, come l’aumento della spesa pubblica in alcune aree o il ricorso a ulteriori debiti, alimentando così il circolo vizioso del debito pubblico.
Una delle principali sfide per i governi che considerano l’adozione della flat tax è quindi legata alla sostenibilità fiscale nel breve termine. Sebbene l’idea di una tassa piatta prometta vantaggi in termini di semplificazione e di efficienza, le difficoltà nell’implementazione di una riforma fiscale così radicale potrebbero tradursi in difficoltà finanziarie. Se la riduzione delle aliquote non è compensata da una crescita sufficiente della base imponibile e da un’accurata gestione delle risorse pubbliche, il risultato potrebbe essere una crescita del debito pubblico piuttosto che una sua riduzione.
In definitiva, la curva di Laffer ci avverte che il sistema fiscale ideale non è necessariamente quello con la tassazione più bassa, ma quello che permette di massimizzare il gettito senza spingere i contribuenti a evadere o eludere le imposte. La flat tax potrebbe, in teoria, portare a maggiori entrate se riuscisse a stimolare l’economia e a ridurre l’evasione fiscale, ma il rischio di un aumento del debito pubblico è un aspetto che non può essere ignorato.
Per evitare che la riforma si traduca in un peggioramento delle finanze pubbliche, è necessario che venga accompagnata da politiche di gestione oculata della spesa e da un forte impegno nell’efficienza del sistema fiscale. Solo così la flat tax potrebbe effettivamente contribuire a un riequilibrio delle finanze pubbliche e, se applicata correttamente, a una sostenibilità fiscale nel lungo termine.
(*) Economista
Aggiornato il 19 novembre 2024 alle ore 15:10