I tributi non fanno uguali i cittadini

Irpef, il 15 per cento degli italiani paga per tutti”, è il titolo a tutta pagina con il quale Il Sole 24 Ore ha riassunto il Rapporto di “Itinerari previdenziali” presentato alla Camera il 29 ottobre. Il rapporto è stato variamente commentato sui media. Ha ricevuto l’attenzione che merita. Infatti, i tributi personali sul reddito non sono semplicemente una questione fiscale sulla quale accapigliarsi a scaricabarile, quanto piuttosto il punto cruciale del rapporto di cittadinanza e dell’uguaglianza legale. Ogni tanto si sente ripetere “lo Stato siamo noi”. Già, ma “noi” chi? Pare invece che, se il 15 per cento degli italiani paga per tutti, esistano sia il “noi” sia gli “altri.” E, come diceva Francesco Cossiga, “Italiani son sempre gli altri”.

Da Ezio Vanoni in poi, dagli anni Cinquanta, le riforme fiscali sono diventate una consuetudine nel dibattito politico, dove purtroppo ogni partito non parla alla cosiddetta platea dei contribuenti, ma al proprio specifico elettorato. E usualmente ne perora la causa con la richiesta di particolari trattamenti fiscali. Da ultimo, il Governo sta emanando decreti attuativi dell’ampia delega ricevuta dal Parlamento per riordinare il sistema tributario, sebbene, nel frattempo, con altre leggi vengano intanto introdotte significative norme fiscali. Insomma, la legislazione sulle tasse, le imposte, i contributi è in continuo fermento. Ribolle come mosto che non diventa vino.

I tributi vengono branditi come arma contundente contro gli “altri” contribuenti, accusati di versarne pochi allo Stato, ma non perché evasori in spregio della legge, bensì perché privilegiati in grazia della legge. È in atto da decenni una sorta di “guerra dei tributi” che tutti i partiti combattono sulle proprie barricate elettorali, appoggiati dalle rispettive lobby. L’esito è sotto gli occhi di tutti, fuorché dei contendenti. Un sistema tributario devastato dalla disuguaglianza, realizzata mediante discriminazioni normative bensì legittime (ope legis) tuttavia profondamente ingiuste, come comprova adesso proprio il rapporto.

La distribuzione del carico fiscale sui contribuenti in carne e ossa (non dimentichiamo che l’acronimo Irpef sta per Imposta sul reddito delle persone fisiche), distribuzione non formale ma sostanziale, dimostra che, quanto ai tributi, esiste un’esigua minoranza (15 per cento) di cittadini di serie B, che versa materialmente i soldi delle proprie tasche, contro una traboccante maggioranza (85 per cento) di cittadini di serie A, contribuenti virtuali (cosiddetti percossi) che ricevono gratis adempimenti pubblici pagati dai contribuenti reali (cosiddetti incisi). Detto altrimenti, ma più precisamente, i pochi mantengono i molti. In senso proprio e in senso figurato, la minor pars provvede alla maior pars e sovviene un vastissimo ceto parassitario che accampa ragioni e pretende prestazioni. Una situazione inversa alla Francia dell’Ancien Régime, ma parimenti rivoluzionaria.

Quando i cittadini-elettori-contribuenti, trascinati dal loro “particulare”, presumono di salvarsi non in quanto collettività accomunata dallo stesso destino finanziario ma in quanto categoria mostrantesi capace di accollare in tutto o in parte alle altre categorie il peso dei tributi gravanti sulla generalità, ebbene questi cittadini-elettori-contribuenti stanno inoculando senza accorgersene una extradose di diffidenza e acrimonia nel profondo della società e seminando il vento di tempesta della rivolta fiscale. Nulla di nuovo sotto il sole. Ma tant’è. L’antica democrazia ateniese avvizzì e perì meno per la Guerra del Peloponneso che per la dissipazione del tesoro, dal quale tutti finirono per attingere sotto la compressione delle forze demagogiche, ciascuna delle quali spingeva perché fossero gli “altri” ad alimentarlo mentre “loro” prelevavano.

Tuttavia, se le colpe dei cittadini-elettori-contribuenti sono tanto evidenti quanto da loro stessi respinte, le colpe dei politici-rappresentanti-tassatori non sono meno appariscenti né meno ammesse. Non mi stanco di ripeterlo e di insistervi: la democrazia versa in deficit istituzionali, politici, economici, perché “i parlamentari inseguono i voti che li inseguono”. Purtroppo questo aforisma espressivo, al quale sono affezionato forse perché mio, non riscuote successo in quanto la legislazione tributaria ha finito con l’essere una gara per allentare anziché controllare i cordoni della borsa. Il concorso di colpa dei cittadini-elettori-contribuenti e dei politici-rappresentanti-tassatori ha fatto una vittima eccellente: il complesso Parlamento-Governo, che, non certo per negligenza, imprudenza, imperizia, ma per irresistibile corrività politica è venuto meno al suo essenziale ed esistenziale potere-dovere: pareggiare le spese con le entrate. Il complesso Parlamento-Governo non s’avvede di inceppare fino a irrigidire la democrazia, incurante di non fare il passo secondo la gamba ma con i trampoli del debito pubblico e dell’inflazione monetaria.

Aggiornato il 08 novembre 2024 alle ore 10:21