Una proposta di legge che punta a regolamentare i pizzaioli con un registro nazionale e un titolo onorifico, senza considerare che la qualità non nasce dalle carte, bensì dalla passione e dall’abilità

In Italia, si sa, è ormai diffuso che: “Un titolo di cavaliere non si nega a nessuno”. Abbiamo già, del resto, i Cavalieri del Lavoro, della Repubblica, di Gran Croce, dell’Ordine Militare, i Cavalieri di Malta, dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, persino quelli della moda e della cultura. Perché, dunque, non aggiungere anche il “Cavaliere della pizza”?

È quanto ha ritenuto un deputato di Italia Viva, al quale si è associato un collega di Forza Italia, che ha pensato bene di colmare la “lacuna” presentando una proposta di legge che mira a disciplinare la qualifica di pizzaiolo professionista, introducendo un registro nazionale e, appunto, il prestigioso titolo di “Cavaliere della pizza” per i Maestri pizzaioli.

“Stiamo lavorando a un corso strutturato, in cui i pizzaioli possano accreditarsi ed essere valorizzati per le proprie capacità”, ha dichiarato la parlamentare. “La cucina per noi è arte, la pizza è arte; quindi, bisogna indicare le caratteristiche e la formazione necessarie per tutelare questa categoria, fondamentale per il made in Italy”.

Ma c’era o c’è davvero bisogno di un’altra categoria di cavalieri? Forse no. Sicuramente non di un ulteriore strato di burocrazia, che finirebbe per soffocare l’iniziativa privata e il merito e per appesantire una delle professioni più antiche e autentiche del nostro Paese.

Né può ritenersi che siffatta iniziativa si muova nella direzione giusta per sostenere il settore della ristorazione, atteso che è davvero distante dai suoi reali problemi, oltre a essere veramente assurda. Infatti, la garanzia di una pizza di qualità deriva dalla capacità, dall’esperienza, dall’arte che ogni pizzaiolo mette nel proprio lavoro e non potrà mai essere rappresentata da un certificato governativo o un bollino statale. Questi potranno servire unicamente a ingabbiare in rigidi schemi burocratici la libertà e la creatività di maestri di tale arte e di una professione che affonda le sue radici nella tradizione e nella passione.

La legge, infatti, qualora venga approvata – sebbene non si scorgono le ragioni perché ciò possa succedere – imporrebbe a chiunque desideri lavorare come pizzaiolo di iscriversi a un registro ufficiale (eventualmente dopo aver svolto un periodo di pratica e superato un esame, come indicato dalla proponente), soddisfacendo determinati criteri stabiliti dallo Stato. E ciò farebbe sorgere, tra gli altri, un altro problema di difficile, se non impossibile soluzione: chi deciderà cosa rende un pizzaiolo “professionista”?  

In sostanza, invece di lasciar fare al mercato e permettere ai consumatori di giudicare chi è bravo e chi no, si dovrebbe così creare un’autorità centrale che avrà il compito di definire gli standard, i quali non potranno che essere del tutto arbitrari: è superfluo richiamare che, quando si parla di pizza si fa riferimento a qualcosa che non può essere classificato o definito, che abbraccia innumerevoli tipologie e varianti e la cui estensione è pressoché illimitata. Senza contare che è presente in ogni parte del Mondo.

Aggiungasi a quanto precede che c’è anche il rischio, sempre in ipotesi di adozione del provvedimento, che siano create nuove barriere all’ingresso nel settore, scoraggiando così l’imprenditoria e favorendo solo chi ha i mezzi per affrontare un’ulteriore procedura burocratica. In proposito bisogna sempre tenere presente che l’Italia è già soffocata da regolamentazioni e certificazioni, per cui introdurre l’ennesima figura professionale riconosciuta dallo Stato appare oltremodo paradossale e contraddittorio, soprattutto se si pone attenzione sul fatto che il vero valore di una professione dovrebbe emergere dall’offerta e dalla domanda del mercato, non da un timbro statale.

A parte tutto ciò, è indiscutibile che l’aspetto più grottesco della proposta che si commenta sia rappresentato dall’introduzione del titolo di “Cavaliere della pizza”. Esso, com’è evidente, non potrà aggiungere alcunché al valore della professione, ma rischia, semmai, di ridicolizzarla, mettendo addirittura in ombra l’attività di chi lavora duramente in detto ambito. Inoltre, in un momento storico in cui la politica dovrebbe occuparsi di liberalizzare le iniziative economiche, ridurre il peso fiscale e burocratico sulle imprese, appare poi singolare la preoccupazione di creare una sorta di riconoscimento onorifico per i pizzaioli, dei quali andrebbero piuttosto esaltati il talento, la creatività e l’intraprendenza.

E tanto anche difendendo la libertà del lavoro e dell’intrapresa privata, e lasciando che sia il mercato, e non lo Stato, a determinare chi merita il successo. In sostanza, invece di aggiungere burocrazia, occorre ridurre le barriere che impediscono a chi lavora di dimostrare il proprio valore senza dover passare per l’approvazione dello Stato e agli imprenditori di esprimere le proprie capacità, di creare posti di lavoro e di offrire prodotti di qualità.

Va da sé, in ogni caso, che il citato progetto, mentre si conferma del tutto inutile, irrealistica e irrealizzabile, può tuttavia essere preso in considerazione unicamente per ricordare ancora che l’interventismo, come sottolineato da Ludwig von Mises, è la malattia professionale di politici, funzionari e militari e che lo stesso si tramuta spesso in un boomerang per l’economia. Regolamentare eccessivamente una professione così tradizionale e diffusa come quella del pizzaiolo non fa altro che soffocare la libera concorrenza e limitare le possibilità di innovazione, sottraendo inoltre al mercato la possibilità di svolgere il proprio compito, ossia di selezionare il migliore risultato: premiando, senza bisogno di alcun titolo di cavaliere o certificato statale, i pizzaioli migliori, quelli capaci di offrire la pizza più buona e di costruire un rapporto di fiducia con i clienti, ed estromettendo gli altri.

In tal senso il mercato, ha ancora insegnato il medesimo scienziato austriaco: “È una democrazia in cui ogni penny dà diritto a un voto”, e “adatta gli sforzi di tutti coloro che sono impegnati nel soddisfare i bisogni dei consumatori ai desideri di quelli per cui essi producono, cioè ai desideri dei consumatori. Esso assoggetta la produzione al consumo”.

Aggiornato il 24 ottobre 2024 alle ore 13:16