Il tema sollevato sulla congruenza dei Nobel assegnati e la volontà del fondatore e il processo all’Economia è solo una parte di un problema molto più complesso e profondo che riguarda la vera genesi della crisi del nostro tempo: una crisi antropologica e non economica. Il dibattito sull’economia e sui suoi metodi di studio non può essere separato da una corretta lettura della storia che nei lunghi tempi tende a ripetersi come aveva intuito Gian Battista Vico; la natura del suo attore, l’uomo, non cambia mai, sempre oscillante tra Caino e Abele e sembra che solo il dolore porti l’uomo alla saggezza. Il pensiero unico tecnico-razionale affermatosi ci fa vedere solo il futuro come garanzia di successo e così non riusciamo a capire le correlazioni tra cause ed effetti nella nostra storia; ci comportiamo come se il passato sia stato cancellato e come se la storia non avesse mai mostrato situazioni simili a quelle a cui ci troviamo ora. Il dibattito, quindi, sul ruolo degli studi di economia e di finanza, in particolare, è più ampio e va ricondotto a un quadro storico per capire come questi abbiano contribuito a un’accelerazione nei processi di cambiamento di un modello socioculturale arrivato al collasso ma che ha radici lontane proprio nel campo della speculazione.
Il cambiamento trova le sue radici a partire da Immanuel Kant che con l’enunciato dell’autocritica afferma che la ragione fa della propria finitezza e del carattere assoluto (infinito) della libertà un punto di partenza sia per l’idealismo tedesco che per il materialismo storico di Karl Marx. L’occidente entra nel mondo della Tékhné e comincia a separare l’uomo dalla sua anima; si afferma, di conseguenza, come unica” verità “solo quella tangibile, osservabile e misurabile” e le scienze che spiegano quella verità diventano esse stesse “verità”. Questo principio di verità, poi, è stato esteso all’economia, ai suoi metodi di studi e al ruolo che le abbiamo attribuito nel definire la priorità dei valori fondanti una società. L’assegnazione del premio, come abbiamo rilevato, ha contribuito a modificare e legittimare le modalità di studio di una scienza che nasce e rimane scienza strumentale e sociale ma che ha finito per assumere il ruolo di una scienza morale cioè finalistica da studiarsi come una scienza positiva ed esatta. Abbiamo finito per scambiare i fini con i mezzi, non è più l’uomo a definire i bisogni ma è il sistema esterno che diventa dominante, autonomo rispetto all’uomo che ne diventa mezzo, un uomo economicizzato. Insomma, non si guadagna per vivere ma si vive per guadagnare e così la vita come mezzo può diventare essa stessa un bene di consumo. Nelle scienze positive ed esatte, però, l’oggetto di studio è indipendente dal soggetto che lo studia – una reazione avviene perché risponde a una sua intrinseca razionalità – ma nell’economia l’oggetto di studio – la ricerca della migliore combinazione tra bisogni e risorse scarse – è parte integrante della dimensione anche emozionale del soggetto che affronta il problema.
Le scelte nell’allocazione delle risorse non possono essere indipendenti dal contesto socioculturale, dal sistema dei valori e delle loro priorità in cui noi viviamo. Il percorso degli studi e degli interessi sovraordinati ha favorito un approccio più utilitaristico e funzionale ad affermare un modello culturale che vedeva nel capitalismo e nel liberismo assunti come fine e non come mezzo la panacea di tutti i mali e un sapere sovraordinato (“le radici sbagliate dell’economia” richiamate nella Evangeli Gaudium, esortazione apostolica di Papa Francesco). Se si attribuisce all’economia un ruolo salvifico della società – più migliora l’economia più migliora la società nei suoi valori fondanti di libertà, uguaglianza e solidarietà – diventa fondamentale creare le condizioni perché questo si avveri. Così assumendo come fine il modello capitalista, la massimizzazione del profitto individuale, diventa necessario adeguare i mezzi per realizzarlo più rapidamente e a partire da Ronald Reagan si procede a una drastica “deregulation” in modo che il libero mercato si affermi; la società diventa buona di conseguenza. Ma senza regole morali si afferma sempre e solo l’interesse del più forte che genera conseguentemente disuguaglianza, degrado morale, povertà che nel modello diventano esternalità negative o anche danni collaterali.
La spallata definitiva viene data con la caduta del muro di Berlino che legittima quel modello come verità incontrovertibile; esattamente l’anno dopo, 1990, viene assegnato il premio per gli studi pionieristici nel campo della finanza (Harry Markowitz) e nel 1995 (Robert Lucas) i mercati finanziari diventano “razionali e non sbagliano mai nell’allocazione delle risorse”. Se il fine rimane quello della massimizzazione del profitto la finanza contribuisce a realizzarlo molto più rapidamente dell’economia reale che viene delocalizzata, si preparano i disastri degli anni successivi. L’economia, quindi, da solida diventa liquida, il suo orientamento passa dal lungo tempo al breve o brevissimo tempo, spesso al saccheggio come si scoprirà dopo; la finanza opera lontano dal mondo reale in un contesto di risorse illimitate, i suoi volumi sono incalcolabili. In quegli anni si affermerà il dogma del “creare valore per gli azionisti” cioè aumentare il valore finanziario delle azioni più rapidamente possibile anche se l’economia reale ha tempi diversi e così si gioca sull’emozione che gettata dalla finestra rientra dalla porta; per realizzare obiettivi sfidanti a breve i manager avranno “bonus” anche dodici volte lo stipendio base. Nel 1997 il premio viene assegnato per i “derivati” (Myron Scholes e Robert Merton) che nel 1989 erano 1/20 del Pil mondiale, nel 1999 diventeranno il doppio e Alan Greenspan li deregolamenterà totalmente; nel 2010 diventeranno 20 volte il Pil mondiale. La gran parte delle loro transazioni – circa il 95 per cento – è riconducibile a un numero limitatissimo di banche d’affari; un contesto assolutamente diverso da quella simmetria informativa su cui Lucas aveva potuto dimostrare la razionalità dei mercati.
Poi, è vero, negli ultimi 15 anni ci sono state nei premi assegnazioni diverse, ma ormai i buoi erano scappati dalla stalla e le radici del modello si erano affermate come dominanti. Le conseguenze tossiche di questo modello socioculturale sono la disuguaglianza, la povertà, il degrado morale, una conflittualità rabbiosa e permanente, la mancanza di immaginazione e di creatività. Tutto questo dipende da un’errata regolazione dei mercati (crisi economica) o dalla fine di un modello socioculturale incapace di rispondere ai problemi dell’uomo inteso come persona non come oggetto (crisi antropologica)? “L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà” (il secondo capitolo di Caritas in veritate, lettera enciclica di Papa Benedetto XVI). Il sistema portato agli estremi ha creato a una concentrazione di ricchezza finanziaria senza pari nella storia con una sorta di senato egemone sovraordinato ai singoli Stati.
La soluzione ai nostri problemi non va cercata nelle regole meccanicistiche esterne alla società ma nelle modalità e nelle politiche socioculturali da avviare per riorientare i sistemi valoriali di convivenza sociale per provare a ricostruire un senso di solidarietà reciproca ormai dimenticato; una società può andare avanti solo se fondata su principi familistici ma non in una guerra di tutti contro tutti. L’economia assunta a valore morale ha tradito il suo ruolo originario di strumento per rispondere ai bisogni dell’uomo ma è diventata essa stessa fine e uno strumento di dominio culturale che ha riportato la società di fronte al dilemma del suo divenire. L’idea di giustizia rappresentata da una società di uguali è stata ignorata e sostituita da una società di disuguali, è giunto il tempo di pensare al nostro tempo per ridisegnarlo, questa è la vera sfida integrale che abbiamo davanti.
(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano
Aggiornato il 21 ottobre 2024 alle ore 09:44