La proposta di tassare gli extraprofitti avanzata da Giuseppe Conte è l’ennesima manifestazione di una visione economica che penalizza chi innova e genera ricchezza
Le recenti dichiarazioni di Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, sulla necessità di tassare gli extraprofitti di alcune grandi aziende, soprattutto nel settore energetico e bancario, espressa con il tono battagliero di chi vuole ridistribuire “non accontentandosi delle briciole”, rappresenta una visione pericolosamente miope e ingannevole.
L’ex presidente del Consiglio sembra convinto che tassare in maniera severa i profitti “eccessivi” generati dalle aziende sia: “Una misura di giustizia sociale e fiscale, che ci consentirà di ridistribuire le risorse a chi ne ha più bisogno, senza gravare ulteriormente sulle tasche dei cittadini. Con i proventi di questa tassazione potremo finanziare interventi fondamentali per il sostegno al reddito, la lotta alla povertà e per abbassare il costo della vita. Non si può più rinviare: chi ha guadagnato di più deve fare la sua parte”.
Tale dichiarazione riprende altre proposte similari, che sono state spesso avanzate in periodi di crisi economica o di emergenza, come avvenuto durante la pandemia di Covid-19 e l’aumento dei prezzi dell’energia, assumendosi che alcune aziende registrino profitti eccezionalmente elevati mentre altre soffrono.
Ma quali sarebbero le conseguenze di una simile misura, qualora venga adottata, quale il prezzo di questa cosiddetta equità?
In un’economia di mercato, è appena il caso di evidenziare, i profitti non sono mai eccessivi. Sono il risultato di una corretta allocazione delle risorse, dell’innovazione, della capacità imprenditoriale di cogliere opportunità che altri non vedono. I citati extraprofitti non sono altro che l’espressione di un sistema che premia chi rischia e chi innova. Togliere a chi ha saputo far crescere la propria attività non è solo un’ingiustizia, è un errore che compromette il progresso stesso. Tassare pesantemente chi ha successo riduce l’incentivo a migliorarsi, a innovare e, in ultima istanza, a far crescere l’economia.
Aggiungasi a ciò che, sovente, essi sono anche una conseguenza dei cicli economici e delle fluttuazioni di domanda e offerta in un libero mercato. La tassazione di questi profitti può ignorare le fasi cicliche e le fluttuazioni temporanee che sono intrinseche al funzionamento dell’economia di mercato. Ci sono momenti in cui certi settori prosperano più di altri, ma questo non significa che vadano puniti.
Invece di demonizzare i profitti, sarebbe più utile riflettere su cosa accade a quelle risorse quando finiscono nelle mani di uno Stato che ha dimostrato, innumerevoli volte, di essere inefficiente nella loro gestione. La redistribuzione, nelle mani di chi governa, si trasforma spesso in uno strumento di consolidamento del consenso, invece che di crescita reale. Le risorse sottratte alle imprese vengono, infatti, dirottate verso interventi temporanei, senza una visione a lungo termine e spesso inquinati da clientelismi.
In buona sostanza, le proposte dell’ex premier, e di coloro che avanzano identiche, non tengono conto di diversi aspetti economici e teorici e riecheggiano una retorica già sentita, ovverosia di uno Stato che si pone come giudice dei profitti altrui, pronto a stabilire quanto sia “giusto” guadagnare. Si tratta della stessa logica che, in passato, ha portato a fallimenti economici, dove l’intervento statale massiccio ha soffocato la capacità produttiva e innovativa del settore privato. Un esempio su tutti è la stagnazione economica di tutte le nazioni che, nel corso del XX secolo, hanno perseguito politiche di controllo sui prezzi e sui profitti: alla fine, hanno ottenuto solo povertà e scarsità.
Tassare gli extraprofitti, dunque, non è la soluzione per costruire una società più giusta o per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Piuttosto, è l’ennesimo tentativo di espandere il controllo statale, limitando la libertà economica e punendo chi produce valore. I ricavi, inclusi gli straordinari, lungi dall’essere un problema, sono una naturale conseguenza dell’efficienza imprenditoriale e dell’adattamento alle condizioni del mercato, sono l’indicatore di un’economia che funziona, di un mercato che risponde ai bisogni dei consumatori e che premia chi sa soddisfarli al meglio: “I profitti non sono un tributo estorto ai consumatori”, ha scritto Ludwig von Mises. “Sono la ricompensa per il successo degli imprenditori nell’adeguare la produzione alle mutevoli richieste del mercato. Tassare i profitti significa sottrarre risorse da coloro che sanno meglio come utilizzarle per soddisfare i bisogni dei consumatori”.
A sua volta, e in modo ancor più chiaro, Murray N. Rothbard ha sottolineato che: “L’idea di extraprofitti implica che ci sia un livello corretto di profitto e che ogni guadagno al di sopra di tale livello sia in qualche modo illecito. Ma i profitti sono semplicemente il risultato di un imprenditore che soddisfa meglio le esigenze dei consumatori. Qualsiasi tentativo di tassare i profitti è un attacco alla produttività e all'efficienza del mercato”.
La storia dimostra che i Paesi che hanno prosperato sono quelli che hanno garantito ai loro cittadini la libertà di fare impresa senza la minaccia costante di una tassazione punitiva. È siffatta libertà che ha permesso la nascita di colossi industriali e innovatori di successo, i cui guadagni sono stati reinvestiti in nuove tecnologie, nuovi posti di lavoro e nuove opportunità.
Al contrario, con la tassazione di cui si discute si scoraggerebbero nuovi investimenti, in special modo in settori cruciali, come l’energetico. Le imprese potrebbero essere meno disposte a investire in nuove tecnologie o espansioni, temendo che eventuali guadagni significativi vengano tassati pesantemente. Questo può portare a una minore crescita economica e a un’offerta limitata di beni e servizi.
Senza contare che gli interventi impositivi rischiano di generare effetti opposti a quelli sperati. Una fiscalità elevata potrebbe tradursi in un aumento dei prezzi per i consumatori, poiché le aziende potrebbero trasferire il peso delle maggiori imposte sui loro prodotti e servizi, aggravando ulteriormente la situazione economica delle famiglie.
Del resto, in un mondo sempre più globalizzato, dove le aziende hanno la possibilità di spostare le loro attività in luoghi più favorevoli, un governo che sceglie di imporre pesanti tasse sui maggiori ricavi rischia di perdere competitività. Le imprese, vessate da politiche fiscali punitive, finiranno per cercare rifugio in mercati più aperti e favorevoli, lasciando dietro di sé disoccupazione e arretratezza.
L’Italia ha bisogno di politiche che incentivino la crescita, non che la ostacolino. L’idea che i profitti debbano essere tassati più severamente è una visione retrograda, che ci allontana dalla prosperità. Le briciole a cui fa riferimento il leader pentastellato non sono altro che il risultato delle politiche di uno Stato che spreca le risorse dei contribuenti e ostacola il libero mercato. È ora di abbandonare queste vecchie ricette e di abbracciare un modello di crescita basato sulla libertà economica e sulla fiducia nelle capacità degli individui e delle imprese di creare valore.
Se davvero vogliamo migliorare le condizioni del nostro Paese, dobbiamo smettere di accontentarci delle briciole di uno Stato predatore e lasciare che la creatività imprenditoriale fiorisca, libera dalle catene della tassazione punitiva.
Aggiornato il 30 settembre 2024 alle ore 09:54