Il debito pubblico e il Patto di stabilità e crescita: qualche suggerimento al ministro dell’Economia

1) Il patto di stabilità e crescita: come ci siamo presentati

Nel 2001 il debito pubblico dell’Italia era di 1.350 miliardi e oggi siamo a quota tremila miliardi nonostante i bassi tassi di interesse sul debito nei 20 anni successivi all’entrata nell’euro e nell’indicazione del Patto di stabilità e crescita, questa seconda troppo spesso dimenticata. Con tassi figurativi medi degli ultimi 20 anni il debito si è in sostanza raddoppiato; questo in presenza di un controllore esterno come l’Unione europea e del patto di (instabilità) e de(crescita) come sarebbe opportuno chiamare. Il patto, per ricordare, è un accordo internazionale, stipulato e sottoscritto nel 1997 ad Amsterdam dagli Stati membri dell’Ue, inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione economica e monetaria dell’Ue (Eurozona) ovvero rafforzare il percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht. Le regole di applicazione del Psc sono state adottate l’1 gennaio 1999 e poi modificate nel 2011 con l’adozione del cosiddetto Six Pack e l’introduzione del semestre europeo. I fatti e la realtà di questi 24 anni dimostrano con evidenza l’inadeguatezza per l’Italia di un Patto di stabilità pensato con una logica di uniformità in un Paese, invece, profondamente diverso nei suoi territori nelle regioni e all’interno delle stesse. Il patto avrebbe dovuto mitigare la crescita del debito e per quello è anche un Patto di crescita perché se il Pil non cresce più del debito questo diventa inarrestabile come vediamo nel grafico.

Nel grafico sopra indicato si evidenzia nettamente come il rapporto del debito con il Pil sia cresciuto alla fine del “Gold exchange standard” nel 1971, come vediamo l’impennata del debito a ridosso degli anni settante e ai primi del decennio successivo. Proprio a ridosso della caduta del Muro di Berlino nel 1991 Beniamino Andreatta separa il Tesoro dalla Banca d’Italia che contribuiva a comperare i titoli di stato per ridurre i tassi di interesse ma fu un disastro che ci espose ad un innalzamento del debito e ci espose alla rapina delle aziende di stato che furono svendute a ridosso del Muro di Berlino a partire dall’episodio del Britannia. Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Romano Prodi, in collaborazione col solito Beniamino Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca commerciale italiana, il Banco di Roma, il Credito italiano. Il debito cresce e i tassi diventano interessanti così sia l’industria pubblica e privata perdono di vista gli investimenti industriali e sono attratti dalla finanza che comincia a dettare le regole del mercato.

L’altro passaggio decisivo avviene alla fine nel 1999 nel mandato di Bill Clinton quando viene abolita la “Glass-Steagall Act” così nasce la “Banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. È il preludio al disastro planetario di oggi. Ci avviciniamo ai nostri tempi nel nuovo millennio e osserviamo la crescita del debito pubblico come quello dei privati illusi dalla magia della finanza e da strumenti strani che nessuno capisce come i derivati che finiranno per divorarci. I primi scrolloni sono, come si vede nel 2008 con il default di Lehman Brothers con il debito che sale, si verifica la stessa cosa con l’attacco speculativo della finanza internazionale nel 2011 all’Italia che vede aumentare il debito e conseguentemente gli interessi sullo stesso. Infine arriviamo ai giorni nostri con la pandemia che ha portato il debito a tremila miliardi e ad un Patto di stabilità rivisto ma di fatto uguale a quello definito nel 1997 con tutti i limiti che possiamo osservare.

2) Un Patto di stabilità e crescita (marziano), asimmetrico al Paese e ostaggio della burocrazia

Il Patto di stabilità e crescita pensato nel 1997 di fatto si ripete pari pari oggi e presenta gli stessi problemi di applicazione che non hanno fatto nulla per abbattere il debito verso la linea rossa del 60 per cento sul Pil come previsto dal patto. Su questo ha giocato un modello culturale di un patto strabico che ha creato un progressivo distacco delle Amministrazioni centrali da quelle periferiche mandando in corto circuito il sistema perché le prime sono sempre più lontane dalla realtà e vedono i problemi da lontano senza preoccuparsi di come norme troppo spesso astratte possono essere applicate nei fatti; le seconde alle prese con un “Sudoku giuridico” si affannano ad interpretare norme continuamente variabili in un orizzonte temporale di breve o brevissimo termine. L’incapacità di intervenire sulla spesa maschera inoltre la volontà politica di perseguire tramite l’espansione della stessa il consenso politico rinviando continuamente la soluzione dei problemi e rendendoli sempre più complicati in un contesto storico in cui quest’azione alimenta il disagio e i conflitti sociali. Alla fine si rincorrono sempre le entrate di cassa – le privatizzazioni – per sostenere la spesa corrente e non per ridurre il debito. Stiamo svendendo il patrimonio e le nostre migliori aziende per continuare a sostenere la spesa corrente senza una strategia di lungo tempo ma non possiamo andare avanti perché ci stiamo mangiando il patrimonio in immobili e imprese. Il Paese si è indebolito e molte imprese e immobili sono ceduti a fondi di capital venture pronti ad indebolirci ulteriormente; prima dobbiamo abbattere la spesa corrente e modificare una politica che divora sé stessa come Saturno che divora i propri figli. Come si può vedere nel seguente grafico le spese correnti funzionali a creare consenso superano di gran lunga le spese per investimento creando un reale problema di contenimento perché si va ad incidere su aree elettive protette.

Il patto prevede, poi, una regolazione uniforme sul territorio con realtà profondamente diverse che finiscono per interpretare le regole in modo diverso e così in mancanza di un vero controllo le stesse operazioni, parità di norme, sono rilevate in modo differente; la fantasia italica ha sempre il sopravento. Chi vive in Lombardia, al centro-nord, di fatto, per storia, cultura, condizioni economiche e sociali è diverso da coloro che vivono in altri territori ad esempio al sud dove la diversità è più marcata. La cultura contadina del Paese infatti ha dato forma a modelli sociali e culturali diversi, al nord si è sviluppata la mezzadria e la compartecipazione al risultato al sud invece il latifondo e il bracciantato hanno sviluppato e radicato la cultura della rendita. Così al centro nord i mezzadri di più di un secolo fa sono diventati gli impresari del terziario mantenendo la stessa radice culturale: lavorare per investire e produrre nuova ricchezza e sviluppando un sistema di solidarietà sociale. Al sud, invece, è prevalsa l’impostazione del latifondo (che nel Dopoguerra da agricolo diventa politico ma rimane la cultura della rendita) e del bracciantato che si incardina nella rendita che non crea ricchezza ma la brucia e incrementa la concentrazione di ricchezza e i disagi sociali.

Il Patto di stabilità interno non tiene conto delle diverse aree geografiche e delle diverse culture, per questo non funziona. I Ministeri stanno su Marte e sono sempre più lontani dalla realtà incapaci, peraltro come tutti, di rinnovarsi nei modelli culturali: il criterio dell’uniformità applicato a oltre 8mila amministrazioni comunali diverse non è più compatibile con le esigenze di cambiamento sociale e culturale del Paese e in definitiva di controllo guidato. Il Patto di stabilità è pensato per ogni singolo comune e irrigidisce la gestione quando invece questa va resa più elastica ma sempre nel rispetto di vincoli che vanno pensati però a livello regionale per favorire il controllo e la ricostruzione di un sistema di condivisione territoriale dei risultati come avviene in altri Paesi – Austria, Germania, Spagna.

Per esempio, oggi, a livello comunale ci sono vincoli su ogni singola voce a canne d’organo che non consentono una gestione in grado di realizzare gli equilibri di bilancio attraverso forme compensative tra le stesse voci. È necessario andare su un Patto regionale e su risultati di sintesi e attuare allora un controllo rigoroso per capire dove stanno le responsabilità che oggi sfuggono sempre ma senza una resa di conto trasparente non si va da nessuna parte. Un meccanismo ingessato mortalmente che si muove in un contesto paradossale, con un sistema di vincoli e deroghe che genera risultati opposti. Un esempio evidente di come l’inadeguatezza del patto e delle regole spingano ad elusioni dello stesso sono stati i derivati e le partecipate.

Il vincolo sull’indebitamento mal posto ha spinto alla formazione di società partecipate per scaricare su di esse al di fuori del bilancio comunale i debiti o problemi i fatti erano evidenti ma non si sono mai posti provvedimenti correttivi e oggi non si sa esattamente quanto è il debito dei gruppi pubblici comunali in aggiunta a quelli dei comuni; basti vedere come ogni singolo giorno vengono alla luce comportamenti elusivi sulle partecipate per favorire interessi particolari. Stesso discorso per i derivati che fino al 2007 era consentito fare senza iscriverli in bilancio come debito, si è steso un tappeto di velluto rosso per l’elusione; adesso stanno emergendo problemi evidenti da anni. Si potrebbe andare avanti in questa galleria degli orrori ma mai nessuno che lo metta in discussione o provi solo a domandarsi se funziona o no; fino a quando sarà possibile mandare avanti i problemi perché Quod differtur, non aufertur, dicevano i nostri antenati latini.

Basterebbero interventi di semplificazione per ridurre la spesa e recuperare risorse intervenendo su un sistema contabile fatto di norme complicate, bizantine e finalizzato a reiterare se stesso e gli interessi che ne sono legati. Ad esempio per qualsiasi voce di spesa si deve procedere alla tracciatura contabile anche per valori irrisori: se si deve acquistare una bottiglietta di acqua del valore di 0,70 centesimi le procedure prevedono prima di tutto la verifica della disponibilità in bilancio – l’impegno di spesa – poi si va al bar e si prende lo scontrino poi redige la relazione dove giustifica il perché dell’acquisto, la verificata disponibilità di spesa e tutto il resto. Alla fine i 70 centesimi di spesa diventano 100 euro in termini di costo di rilevazione. Quando queste rilevazioni di valore irrisorio diventano il 70 per cento del totale si bruciano risorse in termini di ore di lavoro che potrebbero essere destinate ad altre priorità. Recentemente un consigliere regionale ha chiesto il rimborso di 0,50 centesimi; quanto è costata l’operazione che gli ha permesso di tornare in possesso dei suoi 0,50 centesimi? Qual è l’esempio che appare da questi comportamenti?

3) Cosa fare, le responsabilità eluse

Per prima cosa va ripensato il Patto di stabilità cominciando e rivedere e semplificare tutte le norme di contabilità che hanno un costo superiore al beneficio. Poi bisogna ridurre veramente la spesa corrente riducendo contestualmente i costi e non, ricorrendo sempre ad operazioni straordinarie come è successo negli scorsi anni a diversi comuni o aumentando le tasse se le spese non sono veramente sotto controllo. Il primo stadio è quello di approvare la finanziaria abbattendo le richieste inutili o strumentali fatte ad uso personale di spesa in modo drastico con la logica dell’efficienza. Approvata la finanziaria vengono definiti gli impegni per ogni singolo Ministero ed è in questa fase il pericolo maggiore che deriva dalla frammentazione della spesa in tante singole spese che sono funzionali alle più vaste richieste per raccogliere il consenso. Molti di questi impegni non superano i 50mila euro, ma sono poi centinaia; il buon senso vorrebbe che ci si assumesse la responsabilità verso i cittadini per la riduzione di un debito che colpisce tutti; allora sarebbe necessario ridurre al massimo gli impegni di spesa magari cancellando tutti quelli al di sotto di una data cifra, ad esempio 50mila euro?

O di più se il limite non taglia a sufficienza. La spesa del controllo per migliaia di voci spesso inutili diventa gravoso in termini di giornate uomo e fa perdere il tempo che richiede il controllo puntuale di più alte voci di spesa, parliamo di efficienza ed efficacia nell’azione del controllo oggi troppo spesso superficiale e strumentale per mantenere le posizioni di consenso. A questo proposito andrebbe fatto un censimento degli enti inutili coinvolgendo sia le regioni che i comuni in modo che la responsabilità sia condivisa; allo stesso modo abbiamo imposte che generano incassi inferiori alle loro spese di funzionamento che rappresentano un interesse di chi governa tali imposte, non è difficile fare la censimento di tali voci il problema è cancellare le piccole aree di potere.

Una voce su cui incidere è il sistema di burocratizzazione che ha invaso ogni ambito del ciclo entrate-uscite creando un sistema raziocinante sulla carta ma non nella realtà troppo spesso le norme vengono fatte da una burocrazia che non ha mai lavorato nelle istituzioni per le quali legifera. Certamente tra i settori più colpiti è stato il processo di aziendalizzazione della Pubblica amministrazione e in particolare della sanità dove l’idea di introdurre misure di valutazione dei risultati ha portato ad una forma di manager-burocratizzato che confonde l’efficienza con la burocrazia e di fronte al disastro evidente ognuno scarica le proprie responsabilità sugli altri, tutti colpevoli ma nessuno colpevole. Questa è la legge non scritta che vale per ogni istituzione pubblica, o quasi tutte; le riforme sono state fatte in un contesto socioculturale ostile al cambiamento e molto spesso hanno dato risultati opposti a quelli desiderati ma poi si va avanti comunque.

Il dramma della mancata revisione dei sistemi di controllo ha eluso le aree di responsabilità rendendo difficile risalire a chi ha colpa nei dissesti creati dalla mancanza di competenza, da una corruzione che gioca negli spazi aperti da norme marziane i cui stessi estensori molto spesso non sarebbero nemmeno loro in grado di spiegare come purtroppo mi è capitato spesso di vedere e le responsabilità sono spesso eluse. Il tema della responsabilità è strettamente collegato a quello del potere, qui entriamo nel dramma di un’etica del potere cancellata dagli interessi dominanti e da un modello socioculturale che ha innalzato il determinismo e la razionalità come valori assoluti. In questo contesto asettico l’uomo è diventato un esecutore di norme e decreti che sono diventati un fine mentre l’uomo perde sempre più i caratteri della sua essenzialità diventando un “uomo non umano”. Al posto delle antiche radici famigliari subentrano gli apparati burocratici e produttivi che non creano una morale, così diminuisce il significato delle norme etiche sostituite dalla valutazione dell’efficacia e del risultato a scapito delle norme che difendono l’uomo; l’uomo diventa in balia del potere. L’uomo moderno in questo modo non si slega solo dalle radici ma anche dai legami religiosi come vediamo nella decadenza dell’Europa “cristiana”. L’uomo diventa padrone delle cose ma non è padrone del suo potere sulle cose così la prassi quotidiana diventa la violenza e il mondo diventa rischioso da viverci.

Così l’evoluzione di un potere senza limiti ha cancellato il senso etico della responsabilità; essere in possesso di un potere che non è definito da una responsabilità morale e non controllato da un profondo rispetto per la persona significa distruzione dell’umano in senso assoluto. Su questa strada aumenta la perversione di un potere senza responsabilità, non ci sono azioni che si esauriscono con il loro oggetto ma prendono anche chi le compie; l’azione penetra nel soggetto che la compie l’uomo diviene costantemente quello che fa.

4) Le spending review

Le spending review hanno fissato i tetti di spesa ma non basta ed è ancora una manovra inadeguata, è come se un’azienda per ridurre i costi decidesse di non comperare più materie prime senza intervenire sugli assetti organizzativi e sui ricavi collegati, il ragionare sui tetti di spesa è fortemente limitativo perché le decisioni vanno poste sul rapporto costi e benefici e non solo sui costi. Per ridurre la spesa corrente è necessario intervenire sulla riorganizzazione dei servizi magari accorpandoli. Ci vuole il tempo per modificare gli assetti organizzativi: un orizzonte di almeno 3 anni e non, come avviene ora, una legge che ogni anno cambia le regole anche in corso d’anno in una logica di brevissimo termine; se si approva il bilancio preventivo per l’anno in corso ad agosto come si fa a parlare di programmazione. Tutti giocano sulla linea di porta a gettare il pallone in tribuna come capita altro che strategia di lungo tempo. Un Paese che vive sul breve tempo e ogni problema diventa un’emergenza per anni: i rifiuti della Campania, gli sbarchi degli extracomunitari, l’evasione fiscale, la corruzione ad ogni livello e così via, purtroppo. Di fatto tutte le spending review fatte sono state pensate senza aziendalisti che conoscono i sistemi di controllo di gestione e di internal audit indispensabili per limare le voci di spesa ma più spesso sono state composte da economisti generali e da studiosi di finanza che poco hanno a che fare con i sistemi di controllo integrati.

Insomma per tutto quello che si è detto, la dimensione non dovrebbe essere più quella comunale ma regionale. Un Patto di stabilità per la Lombardia, il Veneto, la Toscana, la Campania e via dicendo con elasticità decisionale dove si possono fare compensazioni non solo fra le singole voci di spesa ma anche fra comune e comune. L’Italia affronta una fase storica difficile per provare a ridurre un debito monstre con il rischio ancora una volta di perdere il controllo della spesa. Siamo in un fase storica straordinaria, la crisi non è economica ma ha radici in un modello socioculturale che si è radicato negli ultimi 60 anni ed è fallito avendo creato una società conflittuale e individualista in cui gli obiettivi di profitto hanno messo in secondo piano quelli etici e di rispetto della persona da cui dobbiamo ricominciare. Ripensare il patto, il ruolo della Pubblica amministrazione per consentire un controllo della spesa che riduca gli interessi opportunistici a favore dei più deboli è un imperativo morale per la realizzazione di un bene comune sempre dichiarato ma mai realizzato.

(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano

Aggiornato il 20 settembre 2024 alle ore 13:24