Tutti a parlare della Boccia o del gossip sull’abbigliamento di ministri e comprimari. Ma nessun telegiornale osa rivelare che in Italia gli inattivi sono 34 milioni: che non vanno confusi con i disoccupati, cioè con coloro che in età da lavoro cercano per davvero un’occupazione che non trovano.
Chiunque, guardando al solo tasso di disoccupazione, potrebbe essere tratto in inganno. Il tasso di disoccupazione si conferma stabile al 6,9 per cento tra gli adulti in età da lavoro iscritti al collocamento, mentre è del 20,5 per cento tra i giovani: numeri comunque alti, ma il vero baratro si spalanca aprendo la porta sul mondo del 34 milioni di inattivi. Ci si domanda di cosa vivano, se siano davvero inoccupati o lavorino da sempre a nero.
Per rispondere a queste domande abbiamo chiesto lumi ad un ex impiegato dell’Ispettorato del Lavoro e ad un sindacalista esperto di Caf. Perché ci chiediamo come viva l’Italia, considerando che la popolazione residente è, al primo gennaio 2024, pari a 58 milioni e 990mila cittadini: sottraendo i 34 milioni di inattivi rimangono scarsi 24 milioni di lavoratori che pagano le tasse?
Sia il sindacalista che l’ex dipendente dell’Ispettorato ci raccontano di un paese da circa trent’anni in stato sempre più comatoso. Soprattutto che, tra i 24 milioni di lavoratori formalmente in regola s’annida un probabile 30 per cento di contratti finti o di comodo. Ovvero gente che formalmente risulta assunta in un negozio o in un laboratorio, ma di fatto lavora presso una falegnameria o in un bar, o trae reddito a nero da chissà quale altra attività.
Ci viene così portato l’esempio di una azienda florovivaistica della provincia di Roma o di Caserta, che sulla carta avrebbe venti dipendenti regolarmente assunti e con busta paga: nella realtà dei venti solo sette vi lavorano realmente, gli altri si ritrovano versati solo i contributi ma firmano buste paga che non ritirano. Poi, nei periodi di gran lavoro, nello stesso vivaio ci lavorano migranti che risultano assunti (solo formalmente) in aziende agricole dell’Agro Pontino. La stessa situazione si ripete per negozi di frutta, dove sulla carta risultano dieci dipendenti, a cui vengono pagati i contributi e fatte firmare ogni mese le buste paga: ma di questi solo due lavorano effettivamente presso la frutteria, gli altri si procurano da vivere collaborando con garage, officine, trasporti.
“Un tempo queste problematiche le sapevamo endemiche in certe aree del Mezzogiorno ‒ afferma l’ex dipendente dell’Ispettorato ‒ come Napoli, Foggia, Caserta, Bari. Attualmente, soprattutto per le fasce più basse di reddito, il fenomeno è diffuso in tutta Italia. Sono problematiche difficilmente appurabili. Perché le richieste di intervento sono davvero poche, e riguardano solo i casi in cui potrebbe maturare la prescrizione dei crediti da lavoro e dei contributi previdenziali. In genere si tratta di casi evidenti, in cui c’è una rivolta dei lavoratori contro il datore: così scopriamo verità da galera degne d’una commedia, sentiamo per sommarie informazioni testimoniali i lavoratori in relazione a infortuni, malattie professionali e le più variegate ipotesi di violazione alle normative sulla sicurezza”.
Il sindacalista si guarda negli occhi con l’ispettore, e salta fuori la storia del dipendente d’azienda agricola di Latina che cascava dall’impalcatura in un cantiere improvvisato nel quartiere Talenti di Roma. “Quel lavoratore non doveva proprio esserci in quel cantiere ‒ sbotta il sindacalista ‒ oggi queste situazioni insistono in più del dieci per cento dei contratti da operaio”.
In Italia l’esercizio abusivo di professioni e mestieri è letteralmente esploso nell’ultimo quarto di secolo. L’esercizio abusivo della professione pare riguardi più di un venti per cento degli italiani occupati, gente che esercita delle attività senza alcun titolo di legge. Oggi, in forza anche delle norme Ue e della formazione obbligatoria, non è possibile svolgere alcuna professione o mestiere senza la giusta autorizzazione. Fino ad una ventina d’anni fa l’abilitazione veniva richiesta solo per le professioni che prevedevano un determinato titolo di studio e successivamente al superamento dell’esame di Stato: oggi la professionalità certificata abbraccia tutte le attività, dal meccanico al chirurgo, dall’avvocato al qualsivoglia impiego in laboratorio. Oggi l’accesso ad un lavoro richiede precisi requisiti: ad esempio lo svolgimento di un tirocinio professionale è richiesto al medico come al carrozziere. Per le professioni c’è l’albo del rispettivo ordine, per le arti e mestieri c’è un albo ed elenco regionale. “I soggetti che decidono di svolgere qualsiasi attività in assenza del titolo di legge sono perseguibili per il reato di esercizio abusivo ‒ afferma l’ispettore ‒ La pena prevista per tale reato è la reclusione. E qui capita che i titolari delle attività abbiano regolari iscrizioni e partite Iva, sono a posto con gli aspetti amministrativi, fiscali e contributivi, ma poi utilizzano dipendenti a nero o che risultano assunti come braccianti agricoli in altre regioni italiane”.
“L’Italia è lavorativamente come un corpo pieno di metastasi ‒ afferma il sindacalista ‒ se carabinieri, polizie locali e Guardia di finanza visitassero a tappeto tutte le aziende si salverebbero davvero pochi imprenditori. Ecco perché le ispezioni avvengono solo per i casi eclatanti, e così si scoprono i contratti di comodo fatti a migliaia di braccianti, le false assunzioni presso le frutterie, l’impiego anomalo di personale. Il fenomeno del lavoro nero, sommerso o irregolare, è sempre esistito: consiste nella pratica d’impiegare lavoratori subordinati senza aver comunicato l’assunzione al Centro per l’Impiego ‒ precisa il sindacalista ‒ con tutte le conseguenze sotto il profilo retributivo, contributivo e fiscale. Ma oggi si è andati oltre: registrano i contratti, sfruttano e non pagano, casomai dirottano il dipendente verso un cantiere o un laboratorio con elevato rischio d’incidenti. In pratica la copertura assicurativa la paga l’azienda agricola e poi l’operaio perde una mano mentre lavora in falegnameria o presso un cantiere edile”.
Da statistiche e indagini, a seguito delle morti di questa estate, emerge che un dieci per cento dei contrattualizzati subisce “illecita occupazione”: eppure nella documentazione obbligatoria il datore di lavoro deve dichiarare la mansione, l’impiego effettivo del lavoratore. È evidente che, nonostante i contratti, vengano poi violate tutte le altre prescrizioni normative, come l’omessa registrazione sul libro matricola di una falegnameria di un operaio che risulta in carico ad azienda agricola. “Violazione che non permette agli organi di vigilanza l’immediato riscontro del personale occupato ‒ ci spiega l’ex ispettore ‒ Incidenti o ispezioni degli organi di polizia fanno emergere le irregolarità del caso, ma il sistema del lavoro artigianale e agricolo è ormai quasi tutto così”.
In pratica più di un dieci per cento dei contrattualizzati subisce mancata comunicazione dei distacchi, somministrazione irregolare di lavoro e inosservanza delle norme.
Eppure, il mondo dei media continua a dirci che Maria Rosaria Boccia non aveva ottenuto il contratto di consulenza dai Beni culturali. Forse un modo per non parlare dei veri contrattualizzati, come gli operai agricoli assunti ma che prendono a nero lo stipendio lavorando nel retro di laboratori o garage. Oppure dei vari fattorini abusivi che dovrebbero prendere una busta paga da una frutteria. C’è da pensare che ai 34 milioni di inattivi sia stato proposto un contratto da operaio agricolo, e con finta busta paga, in cambio di un vero lavoro di sedici ore al giorno in un laboratorio abusivo.
Aggiornato il 11 settembre 2024 alle ore 14:05