Cultura Woke e capitalismo

La “cultura woke” è un fenomeno socioculturale che si è diffuso negli ultimi anni, principalmente nei paesi occidentali, per indicare una crescente attenzione riguardo a questioni di giustizia sociale, equità razziale, diritti Lgbtq+, femminismo, e altre tematiche legate all’inclusività e all’uguaglianza. Che essa, poi, sia divenuta un importante “cavallo da battaglia” della nuova sinistra è un fatto incontestabile.

La lotta al capitale, elemento di fusione delle classi meno ambienti della società e la convinzione che l’unione dei proletari fosse capace produrre una società più giusta, ha lasciato, infatti, il passo alla rivendicazione di diritti individuali legati alla persona e capaci di unificare il ricco ed il povero in una lotta alle convenzioni sociali.  In tal modo si è attuato un rovesciamento dell’obbiettivo di lotta che aveva animato da sempre la cultura progressista, per cui, ora oggetto di lotta è ogni valutazione negativa o opinione su un individuo (o un gruppo di persone) basata su caratteristiche come l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, la religione, l’età, lo stato socioeconomico, o altre categorie sociali. In altre parole, oggetto di lotta è il cosiddetto “pregiudizio sociale”.

I pregiudizi possono essere legati a vari fattori, tra cui il livello di istruzione, l’accesso alle informazioni, le condizioni economiche, e le esperienze di vita quotidiana. Le classi sociali, in particolare, quelle del proletariato e della borghesia (per come sono adesso) possono avere esperienze e prospettive diverse che influenzano la loro apertura al cambiamento e alla riduzione dei pregiudizi.

Alcune ricerche sociologiche ci indicano come la borghesia, che rappresenta la classe media e alta, ha normalmente un miglior accesso a un’educazione più elevata e risorse economiche maggiori. Questo ha come conseguenza una maggiore esposizione a idee progressiste e a una maggiore capacità di accedere a informazioni diverse. Eventualmente la borghesia è certamente influenzata dalla necessità di mantenere lo status quo per preservare i propri privilegi, il che può perpetuare pregiudizi, specialmente legati a questioni economiche o di classe.

Quanto al proletariato o, meglio, alla classe lavoratrice, sembra come questa in effetti sia più vulnerabile ai pregiudizi a causa di un accesso limitato all’educazione e a risorse informative diversificate. Le difficoltà economiche possono anche portare a risentimenti che si trasformano in pregiudizi verso altre classi o gruppi sociali.

Da qui l’accusa mossa proprio dal proletariato alla nuova sinistra di essere stato abbandonato e di essere finito sul banco degli accusati; in effetti il proletariato, classe composta prevalentemente da lavoratori manuali e persone di basso reddito, con accesso limitato all’istruzione, in quanto portatore di un sapere informale, derivato prevalentemente dall’esperienza pratica e dalle tradizioni comunitarie, finisce per essere il bacino dove si condensa la cultura di disprezzo per il diverso. Ciò in parte spiega l’allontanamento delle classi più povere della popolazione dai partiti della sinistra che, per tale motivo, è anche spesso accusata di essere divenuta paladina dei bisogni della nuova borghesia e, più in generale delle nuove classi capitalistiche.

La relazione tra la cultura woke e il sistema capitalistico è, tuttavia, assai più complessa ed articolata e si può approcciare affrontando diversi aspetti.

In primo luogo, una delle dinamiche più rilevanti che non possiamo non evidenziare è, certamente, la capacità del capitalismo di appropriarsi e commercializzare movimenti sociali e culturali, inclusa quindi la cultura woke. Questo processo, conosciuto come “cooptazione” si verifica quando principi originariamente critici o sovversivi vengono integrati nel mercato capitalistico, perdendo parte del loro potere trasformativo. È stato così, ad esempio, per il “movimento del 68”. Basti pensare alla moda o alla musica e all’intrattenimento.

La moda del ‘68, con il suo abbigliamento casual, i jeans, e gli stili ispirati ai movimenti hippie e punk, è stata rapidamente adottata dall’industria e ciò che in origine era un segno di ribellione è diventato un prodotto di massa. I simboli della controcultura, come il segno della pace o le immagini di Che Guevara, sono stati trasformati in icone di marketing. La musica rock, psichedelica e folk, che era parte integrante del movimento del ‘68, è stata commercializzata e promossa dall’industria musicale. Festival come Woodstock sono stati mitizzati e successivamente trasformati in brand e prodotti di intrattenimento.

In senso più ampio i temi di libertà, individualismo, e auto-espressione, che erano centrali nella cultura del ‘68, sono stati incorporati nelle strategie di marketing delle aziende. Le campagne pubblicitarie hanno iniziato a promuovere l’idea che il consumo di certi prodotti potesse essere una forma di espressione individuale e libertà personale.

Quanto al mondo del lavoro ha assorbito le idee di creatività, flessibilità e autonomia, che erano centrali nel movimento del ‘68. Questi concetti sono stati integrati nel modello di lavoro post-industriale, promuovendo l’idea di un ambiente lavorativo più “libero” e meno gerarchico, ma che in realtà spesso maschera nuove forme di sfruttamento e precarietà. Negli ultimi anni il lavoro ha visto l’emergere di nuove strutture meno gerarchiche e più flessibili che, sebbene presentate come innovative, spesso nascondono sfruttamento e precarietà.

Nella gig economy, lavoratori autonomi come autisti e rider godono di poca protezione sociale e devono lavorare molte ore per un reddito incerto. Lo smart working, pur positivo, può sfumare i confini tra lavoro e vita privata, aumentando lo stress. Le strutture organizzative piatte aumentano le responsabilità senza compenso adeguato. L’autoimprenditorialità spinge i lavoratori a competere in un mercato saturo con rischi finanziari elevati. I contratti atipici aumentano la precarietà. Queste nuove forme di lavoro, apparentemente flessibili, in effetti richiederebbero ben altre più solide politiche d’intervento per evitare sfruttamento e vulnerabilità.

Oggi, non dissimilmente da quanto accaduto nel ’68, i marchi globali adottano spesso retoriche woke nelle loro campagne pubblicitarie, come ad esempio il supporto a movimenti come il Black Lives Matter o la promozione dei diritti Lgbtq+, utilizzandoli come strumenti di marketing piuttosto che come impegno genuino per il cambiamento sociale. Questa dinamica, peraltro, è ben descritta da Naomi Klein nel suo libro No Logo (2000), di cui raccomando la lettura, dove analizza come il capitalismo abbia la tendenza a trasformare la ribellione in una merce da vendere. La cultura woke, inizialmente focalizzata su cause sociali e politiche, viene così assimilata nel meccanismo capitalistico, perdendo il suo potenziale radicale e trasformandosi in fenomeno di moda e costume.

La cultura woke ha avuto un impatto tangibile sul capitalismo, spingendo molte aziende a rivedere le loro pratiche in favore di politiche più etiche e responsabili.

Il concetto di “capitalismo inclusivo” o “capitalismo consapevole” si sta diffondendo, con un numero crescente di aziende che cerca di bilanciare la generazione di profitto con l’impegno sociale e ambientale. Un esempio di questo è l’adozione di politiche di diversity and inclusion (D&I) all’interno delle grandi corporazioni, e la crescente attenzione ai criteri Esg (Environmental, Social and Governance) negli investimenti. Inoltre, il movimento woke ha anche contribuito a sensibilizzare il pubblico riguardo a temi come la sostenibilità e la responsabilità sociale, influenzando le scelte dei consumatori e spingendo le aziende a migliorare le loro pratiche per evitare boicottaggi o danni reputazionali.

Slavoj Žižek, un noto filosofo sloveno, tuttavia, ha criticato l’ipocrisia del “capitalismo etico” dove le imprese utilizzano il linguaggio della giustizia sociale per legittimare la loro stessa esistenza all’interno di un sistema che, intrinsecamente, perpetua le disuguaglianze. In effetti, la cultura woke promuove ideali di equità e giustizia, spesso in contrasto con i principi fondamentali del capitalismo, che è basato sulla competizione e sulla generazione di profitto. Questa contraddizione è evidente quando le aziende che promuovono messaggi woke continuano a praticare politiche aziendali che perpetuano disuguaglianze economiche e sfruttamento del lavoro, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

Un esempio emblematico può essere osservato in aziende come Nike o H&M, che promuovono campagne incentrate sulla diversità e l’inclusione, mentre sono criticate per le condizioni di lavoro nelle fabbriche dei paesi del Sud globale.

In sintesi, a nostro modo di vedere, anche per la cultura woke la relazione dialettica con il capitalismo finirà per cooptare e diluire i movimenti sociali per mantenerli sotto controllo, mentre lo sforzo di questi ultimi di influenzare il capitalismo dall’interno, potrà registrare successi e fallimenti alterni che incideranno sul capitalismo nella sola misura in cui esso sarà capace di generare profitto, salvo respingere e reprimere gli atteggiamenti per il capitalismo più eversisi, ovvero, quelli che andranno a minare il processo d’accumulazione capitalistica.

Gli elementi intoccabili, ovvero, l’etica su cui si forma il capitalismo, ricordiamoli innanzi tutto a noi stessi:

Massimizzazione del profitto
L’obiettivo principale delle imprese capitalistiche è massimizzare il profitto, questo significa ridurre i costi di produzione, aumentare le vendite, e migliorare l'efficienza operativa per ottenere il massimo ritorno sugli investimenti.

L’ accumulo di capitale
Nel capitalismo, il successo economico è spesso misurato dalla capacità di accumulare capitale. Le imprese reinvestono i profitti per espandere le proprie operazioni, innovare e acquisire ulteriori risorse, creando un ciclo di crescita economica. La concorrenza tra le imprese è un elemento chiave del capitalismo. Questa competizione stimola l’innovazione, l’efficienza, e la qualità dei prodotti e servizi, ma può anche portare a pratiche aggressive per superare i rivali e aumentare i margini di profitto.

Il mercato libero
Il capitalismo favorisce un mercato libero, dove i prezzi e la distribuzione delle risorse sono determinati dalla domanda e dall'offerta. In teoria, questo dovrebbe portare a un uso efficiente delle risorse e a una migliore allocazione dei beni e dei servizi.

La proprietà privata
Il capitalismo si basa sul principio della proprietà privata, dove gli individui e le imprese hanno il diritto di possedere e controllare beni e risorse. Questo diritto è visto come essenziale per incentivare l'imprenditorialità e l'investimento.

In buona sostanza, nel capitalismo quasi tutto (o meglio, tutto) può essere trasformato in merce (commodification), inclusi beni pubblici, servizi essenziali, e persino aspetti della vita umana come la salute e l’istruzione, portando a una mercificazione di valori che potrebbero essere considerati intrinsecamente non commerciabili.

Ciò ne segue, a mio modo di vedere, l’inutilità di ogni progetto ideologico che supponga l’adattamento del capitalismo a valori esterni allo stesso, perché i valori del capitalismo sono da sempre gli stessi e non si prestano a processi di edulcorazione, anzi il capitalismo ha la capacità e la forza di assorbire gli impulsi antisistema, farne profitto e marginalizzare le componenti più pericolose.

Questo almeno quanto è accaduto fino ad ora.

(*) Economista

Aggiornato il 26 agosto 2024 alle ore 14:52