Il comandamento dimenticato: “Non rubare”

In questa fase storica di implosione di un modello socioculturale si evidenziano tutte le patologie che caratterizzano sempre la fine di un periodo storico e del suo modello di sviluppo. La storia letta nel lungo tempo mostra una concatenazione di fatti che ne determinano le caratteristiche tipiche di ogni periodo. In questo senso, la storia si ripete, come aveva intuito Giambattista Vico, non in modo meccanicistico ma con costanti che si alternano tra periodi di tensione spirituale e altri di spinta verso un materialismo conflittuale da basso impero. In queste fasi finali di decadenza culturale e morale, definite da Vico il tempo dei barbari, i sistemi sociali si identificano per una materialismo greve, una superficialità asettica e la conseguente perdita di creatività che ne inibisce il cambiamento e porta all’implosione generata da un decadimento morale, uno svuotamento dei valori, con la caduta delle tensione verso il bene comune per realizzare il bene personale di breve tempo da perseguire ad ogni costo.  La ricerca dell’interesse personale ad ogni costo porta alla normalizzazione di comportamenti illeciti. Così, il settimo comandamento, “non rubare”, sembra destinato a superare tutti gli altri per importanza. Alla base del comandamento vi è il divieto del “furto” inteso come l’appropriazione di beni altrui, ma nelle attività operative la sua dimenticanza diventa ormai una prassi normale, il “furto”, nelle sue forme palesi e occulte è diventato connaturato e intrinseco al modo di agire e siamo ormai indifferenti all’invasività di questi comportamenti che si estendono senza un vero controllo reale e sociale.

I comportamenti illeciti sembrano non solo tollerati ma anche da emulare nella capacità di accumulazione di ricchezza che esprime l’infinita avidità dell’uomo e contribuiscono a determinare il valore di una persona. Il crescente e invasivo predominio di questo modello materialista viene alimentato dagli esempi di una classe dirigente fallita, da una comunicazione piatta, uniforme ed omologante che lo espande senza limiti allontanando le persona dalla realtà, dalla conoscenza e orientandole sempre più verso l’ignoranza, l’aridità creativa e l’impoverimento della vita socioculturale, come vediamo ogni singolo giorno. Un ruolo determinante verso questo svuotamento dei valori è stato determinato anche dalla rivoluzione finanziaria, che si è imposta a scapito dell’economia reale, per favorire un più rapido accrescimento della ricchezza personale rispetto ai tempi lunghi dell’economia reale, che però mantiene l’uomo attaccato al lavoro, alla socialità e ne tempera gli eccessi di euforia e di depressione. Per assecondare il più rapidamente lo sviluppo dei modelli finanziari è stato necessario avviare una liberalizzazione delle norme che regolavano i mercati e diventavano un vincolo inaccettabile alle esigenze di questa finanza e degli interessi che portava. Il liberismo sfrenato e senza regole ha fatto saltare tutte le regolamentazioni antimonopolio che davano ordine e trasparenza ai mercati e il salvataggio nel 2008 delle grandi corporation e delle grandi banche giustificato per evitare un rischio sistemico è stato un colpo di spugna sulle più elementari leggi antitrust.

“La rivoluzione finanziaria ha modificato la natura stessa della ricchezza che una volta era espressa da beni reali. Il furto era chiaro in quel contesto, ma ora la ricchezza non è tanto nell’accumulazione di beni, poiché il maggiore strumento della sua creazione è il debito. La ricchezza è diventata un numero, un simbolo che travalica i confini transnazionali disperso nell’opacità di in una rete di strumenti informatici” (I comandamenti. Non rubare di Paolo Prodi e Guido Rossi, Il Mulino 2010). La dematerializzazione della ricchezza è legata al momento in cui la carta moneta viene sganciata da un sottostante reale con la fine del “Gold exchange standard” nel 1971 e messa nelle condizione di replicarsi all’infinito. La finanza, sganciata da una limitazione finita, diventa un esplosivo moltiplicatore di ricchezza illusoria ma le tecniche e le strumentazioni finanziarie non permettono più di capire il volume dei valori trattati in un continuo cambiamento di andamenti frutto di sistematiche e opache operazioni finanziarie. Le imprese si spersonalizzano passando, di mano in mano, senza consentire di capire quale sia il loro proprietario e il loro valore reale, in un continuo gioco di scambi virtuali funzionali a generare aspettative continuamente modificabili. Tutti diventano giocatori di un casinò fantastico e vengono spinti sempre più al “moral hazard”, alla negazione delle regole. Così, il “furto” diventa un mezzo giustificabile dal fine.

La mancata regolamentazione dei mercati ha fatto venire meno la simmetria informativa e dunque la trasparenza dei mercati stessi. “Le asimmetrie informative si sono aggravate per la complicazione di una finanza metafisica ma soprattutto per la sistematica opacità. Il risparmiatore ignaro viene derubato approfittando della sua ignoranza, questa diventa la forma più grave di furto perché i mercati non sono né razionali né efficienti” (I comandamenti. Non rubare di Paolo Prodi e Guido Rossi, Il Mulino 2010). L’opacità che copre questo gioco è la dimostrazione più palese della frode e del furto e del ruolo deviante del capitalismo finanziario deregolamentato. La finanza portata a questo punto diventa anche una forma di espropriazione dei beni collettivi quando viene usata come arma non convenzionale nei confronti degli Stati, con l’uso di strumenti valutativi staccati dal mondo reale ma rafforzati dall’ignoranza e sudditanza di tanti e dagli interessi di pochi. Ma pensare, come si sta facendo, di continuare a fare sempre le stesse cose e seguire sempre gli stessi modelli sperando di arrivare a risultati diversi, è solo da folli scriveva Albert Einstein. Prendere coscienza dei problemi veri e profondi è l’unico modo di provare a riscrivere il nostro tempo per risollevarlo dal “tempo dei barbari”.

(*) Professore emerito dell’Università Bocconi di Milano

(**) I comandamenti. Non rubare di Paolo Prodi e Guido Rossi, Il Mulino 2010, 169 pagine, 11,40 euro

Aggiornato il 25 giugno 2024 alle ore 09:55