Il mercato, uno strumento di solidarietà e di welfare

Oggi viviamo in una società globalizzata che ha raggiunto elevati livelli di benessere grazie a nuove scoperte e ai successi dell’industria e della libera impresa. Nonostante ciò, è ancora diffusa una cultura che contrappone il mercato alla solidarietà e, in particolare, imputa al mercato di non essere solidale, soprattutto verso i poveri, gli emarginati, i diversamente abili. Per ovviare a ciò, la soluzione che viene proposta sembra scontata, e passa attraverso l’ulteriore sviluppo dell’apparato di “sicurezza sociale”, unitamente ad una maggiore “giustizia sociale”, secondo lo slogan: “Meno business, più giustizia sociale”. A corredo di ciò si invoca pertanto l’intervento dello Stato, che si individua come unico mezzo attraverso il quale le fasce deboli possono accedere a un welfare sufficiente a sollevarli dalle dure realtà che possono accompagnare le loro vite. Tutto ciò è pure dimostrato dal fatto che un numero rilevante di individui vota solitamente per gruppi e partiti favorevoli a politiche che ridistribuiscono la ricchezza da alcuni ad altri attraverso la coercizione statale. Inoltre, nonostante l’esistenza di detta ridistribuzione statale, essi mostrano in modo ancora più convincente la loro fiducia nella necessità del welfare allorché donano volontariamente ai poveri attraverso la carità privata.

Ebbene, se da una prima disamina siffatto approccio appare ricollegato unicamente a pregiudizi ideologici ostili al mercato e all’illusione che sia possibile costruire deliberatamente un ordine sociale vantaggioso per la collettività, attraverso l’interventismo redistributivo dei pubblici poteri; dall’altro manifesta chiaramente tutti i suoi limiti e le contraddizioni che lo rendono non solo impraticabile, ma anche dannoso. Né considera che tutte le possibili e immaginabili alternative al mercato sono state tentate, ma hanno prodotto ovunque risultati disastrosi. Il rischio e l’incertezza − è indiscutibile − sono caratteristiche ineliminabili della vita, e sono connessi allo svolgimento di qualsiasi attività: anche la più banale, infatti, comporta l’assunzione di rischi. Chiaramente, ogni individuo, per quanto in suo potere, cerca di eliminare o, quanto meno, di ridurre al minimo l’incidenza del rischio nella propria vita, e di veicolare la stessa nei binari delle certezze. Può capitare, però, che senza alcuna colpa, e solo per aver tirato dal mazzo una “carta bassa”, il destino si sia rivelato infausto verso alcuni, costringendoli a vivere in situazione di indigenza, emarginati e privi di qualsiasi sostegno morale ed economico. Per tali casi, sono nate le forme di assistenza sociale, che inizialmente erano approssimative e in letteratura sono collegate alle Poor laws dell’Inghilterra del XVI secolo, le quali erano rivolte ai poveri ma avevano carattere residuale, occasionale e discrezionale. Prevaleva, comunque, l’intenzione politica ostile alla povertà, il cui aumento diventava sempre più rilevante e andava di conseguenza affrontato con misure di segregazione nei confronti dei poveri.

A partire dal XIX secolo, sull’esempio delle sperimentazioni nella Germania di Bismarck, si è poi sviluppato l’assistenzialismo di Stato, soprattutto a partire dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Per Chris Pope, membro senior del Manhattan Institute, il moderno Stato sociale europeo è infatti un sottoprodotto della natura dirompente della Seconda guerra mondiale e presenta politiche che hanno avuto origine nella Germania nazista. I loro programmi, nonostante non siano stati completamente attuati per la débâcle nel conflitto bellico, hanno tuttavia contributo inizialmente alla trasformazione di quelli dei Paesi occupati, per poi costituire la base ideale affinché i governi del dopoguerra, per lo più orientati a sinistra, potessero mantenere o addirittura estendere i programmi di welfare. Questi hanno finito per coinvolgere sempre più aspetti della vita degli individui, sostituendo alternative private e imponendo tasse più elevate, che hanno lasciano i cittadini europei con meno risorse per le loro esigenze di vita. Lo Stato ha così via via monopolizzato la fornitura dei servizi attraverso una organizzazione unificata, sul presupposto della maggiore efficienza e del vantaggio amministrativo ed economico per la collettività. Esso, però, lungi dal realizzare gli scopi di solidarietà dei quali si era fatto portatore, si è esteso nel tempo, come dimensioni e costi, da rendere del tutto difficile la delimitazione dei suoi confini. E si è altresì rivelato un pessimo affare per la collettività, dalla quale, attraverso la coercizione, ha prelevato più di quanto avrebbe potuto ottenere spontaneamente in assenza di coercizione e per i servizi resi.

In sostanza, il sistema apprestato è diventato un potente apparato di redistribuzione del reddito, diretto dal ceto politico e dalla burocrazia che, mediante il riconoscimento del diritto dei cittadini ad uno standard minino, ha finito per attribuire una specie di proprietà collettiva sulle risorse di tutti, non compatibile, però, con una società basata sull’economia di mercato. È palese, pertanto, che, se in una società aperta, la quale ha ormai raggiunto un elevato livello di benessere e ha visto dissolversi i vincoli di solidarietà che legavano l’individuo al piccolo gruppo di appartenenza, dal quale poteva ottenere il necessario aiuto in caso di bisogno, è doveroso proteggere gli svantaggiati, ed è del pari necessario che ciò avvenga abbandonando l’idea di una “giustizia sociale” e qualsiasi intervento sui meccanismi competitivi di mercato, il cui funzionamento costituisce insieme un valore etico e la migliore garanzia di soddisfazione dei bisogni soggettivi indipendentemente dal potere politico. Del resto, come evidenziato da Friedrich von Hayek: “Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro i rischi comuni a tutti, ma è compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato”, e che la lotta per la “giustizia sociale” è “in pratica una lotta per il potere da parte di interessi organizzati, in cui le argomentazioni di giustizia servono unicamente come pretesti”.

Aggiornato il 13 giugno 2024 alle ore 15:56