La Scuola Austriaca di Economia: una fonte di conoscenza negata

Sono trascorsi 16 anni da quando la Regina Elisabetta II, recatasi in visita alla prestigiosa London School of Economics, formulò la sua famosa e fatidica domanda: “Come mai nessun economista è riuscito a prevedere una crisi economico-finanziaria così devastante come quella appena scoppiata?”. I testimoni narrano che l’imbarazzo degli economisti presenti raggiunse vette inesplorate. A quella domanda infatti rimasero letteralmente attoniti, proprio perché – ebbri da tempo di derive deterministiche, matematizzanti e modellizzanti – sono ormai abituati a infarcire i loro studi con previsioni, proiezioni, modelli econometrici tanto apparentemente solidi quanto sganciati dalla realtà, ma utili per fornire consigli ai governanti di turno. Non poterono fare a meno di rispondere alla regina con argomentazioni pietose e risibili, autoreferenziali e autoassolutorie. Si narra anche che Elisabetta II abbia poi sollevato, in privato, seri dubbi sull’utilità di una simile professione.

Qualche anno più tardi, all’Università di Manchester, ricercatori di economia hanno alimentato un’autentica protesta per come la loro disciplina mainstream sia riuscita a escludere dalle accademie altre scuole di ricerca che – come loro stessi dichiararono – avrebbero avuto molto più da dire in termini di spiegazione delle crisi cicliche o dell’inflazione, tassa occulta che sta devastando proprio questi anni recenti. In realtà quell’esclusione – solo parzialmente compresa da quei pur attenti ricercatori – deriva dal fatto che alcune scuole continuano a essere viste come refrattarie a conferire il ruolo che gli economisti hanno ereditato dai giuristi nella storia dello Stato moderno: quello di consiglieri del principe. Ruolo che li ha trasformati poi in ideologi dello Stato unitario centralizzato, ritenuto necessario per l’interventismo in economia. Fra gli approcci esclusi spicca – ed era stata espressamente citata dagli studiosi di Manchesterla Scuola austriaca di economia.

Un’esclusione che in campo accademico dura da sempre e che è di una gravità inaudita. Basti pensare che quella Scuola – stratificatasi in più generazioni di economisti che sono stati anche scienziati sociali di altezza siderale (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek ecc.) – è riuscita a formulare una coerente e auto evidente teoria generale del ciclo economico, della moneta, dei prezzi, del ruolo dell’imprenditore, delle conseguenze dell’interventismo statale nell’economia, della manipolazione statale della moneta e del credito. Inoltre, è stata in grado di fornire spiegazioni (le previsioni nelle scienze dell’azione umana rimangono comunque molto difficili), che consentono almeno di anticipare l’arrivo della fase di bust, che segue quella di boom e di chiarire le cause di fenomeni quali: l’inflazione, la stagnazione economica, la recessione. Infatti, gli economisti “austriaci” sono riusciti ad avvertire per tempo – e non a caso – che la crisi del 2008, la più grave dal crollo di Wall Street.

Eppure, nelle università questa Scuola, soprattutto in campi nei quali dell’economia e delle sue (poche ma inesorabili) “regolarità” e ripetitività si ignora quasi tutto, continua a essere tenuta nascosta o perfino, nei casi più patologici e di crassa ignoranza, derisa. È il caso soprattutto dell’opera di Ludwig von Mises (il più grande economista e scienziato sociale del Novecento), ma anche di quella del suo allievo – Premio Nobel  nel 1974 – Friedrich von Hayek e degli economisti della stessa Scuola, di terza e quarta generazione. Come se “affidarsi agli austriaci” non rispondesse oggi innanzi tutto a un’esigenza di conoscenza ormai imprescindibile e improcrastinabile.

A lungo ci si è dimenticati in questo Paese che l’economia è una scienza sociale, e che la teoria economica è analisi dei meccanismi logici (e psicologici) che muovono l’azione umana. Se si pretende di usare relazioni matematiche per analizzare un fenomeno tanto complesso come questo tipo di azione, della quale sono protagonisti persone in flesh and blood (“in carne e ossa” avrebbe scritto l’economista inglese ottocentesco Alfred Marshall), il risultato sarà quello di scambiare estrapolazioni statistiche o modelli astratti e irrealistici come utopie per previsioni scientifiche.

La Scuola austriaca di economia e soprattutto l’opera principale di Mises, un Trattato che reca significativamente il titolo Human Action (1949), hanno fornito elementi fondamentali per una completa ed esaustiva teoria dell’azione umana per la scienza economica e sociale, dotata di un formidabile potenziale conoscitivo, corroborato dal ripetuto fallimento dell’interventismo statale e dall’interferenza del potere pubblico in economia e ancor più dal collasso dei sistemi amministrati (pianificati, di “statalismo integrale”), il cui inevitabile impantanamento – a causa dell’impossibilità del calcolo economico e dell’assenza di un sistema dei prezzi aderente alla realtà – era stato già spiegato da Mises in Gemeinwirtschaft (1922: Economia Collettiva, Socialism). Per non parlare della più completa e solida teoria generale del ciclo economico, che in altre scuole non esiste o – laddove sia stata tentata – fa acqua da tutte le parti ed è auto-contraddittoria. Tutti fenomeni coerentemente spiegati e per questo anche, almeno in parte, prevedibili, che hanno segnato l’ultimo secolo e continuano a pesare profondamente sulle nostre vite.

La domanda è: perché questo è accaduto e continua ad accadere, provocando un danno colossale alla conoscenza scientifica e un grave vuoto teorico per i giovani studiosi? La ragione principale è abbastanza semplice e intuitiva. Secondo questa Scuola la soluzione del “problema economico” (come fuoriuscire dalla condizione “normale” dell’umanità: quella di povertà, facendo i conti con la scarsità e il problema della produzione di risorse), può derivare solo dall’interazione fra scelte individuali che danno vita alla cooperazione sociale volontaria. Quelle scelte non possono che basarsi sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti di proprietà sui frutti del proprio lavoro, titoli di proprietà legittimamente acquisiti e scambiabili. Infatti, solo se quelli sono tutelati, gli attori economici hanno anche i mezzi per realizzare i propri progetti individuali, che si sostengono perché soddisfano i bisogni degli altri. Da questa interazione di bisogni e di azioni, co-adattati reciprocamente, sorgono anche le istituzioni spontanee, che rendono possibile al tempo stesso la cooperazione volontaria, il perseguimento degli scopi dei singoli (che non presuppone alcun accordo preliminare sui fini) e uno scambio mutualmente vantaggioso.

Tuttavia, se ciascuno è libero di decidere circa i propri bisogni e a quali soggetti rivolgersi per soddisfarli, la cooperazione volontaria si sottrae alle prescrizioni del potere politico e alleggerisce, comprime il ruolo dei governanti, privati del compito – che pretendono sempre di svolgere in forma monopolistica – di prescrivere i contenuti delle azioni e delle scelte individuali, imponendo una gerarchia obbligatoria di fini (proclamati “razionali”, decisi dall’alto) e imposti dall’azione politica. Un compito, questo, che è debordato nel Novecento in misura talmente abnorme da risultare al confronto inimmaginabile in tutte le epoche storiche precedenti. Perfino nei regimi imperiali autocratici e “asiatici” del passato, che non potevano nemmeno sognarsi di interferire anche con le più intime ragioni individuali per stare al mondo, come hanno invece fatto i regimi di “statalismo integrale” e totalitari.

Un processo, questo, sviluppatosi soprattutto per fini bellici di quella macchina da guerra che è lo Stato, nelle sue due facce complementari di una stessa medaglia: il welfare e il warfare, ossia la peggiore minaccia alla libertà che l’umanità abbia mai sperimentato. In altri termini, si è preteso di risolvere il problema economico assorbendo l’economia in sistemi “anti-economici” dominati dalla politica e da un potere pubblico onnipotente e onnipervasivo, trasformando la cooperazione da volontaria in coercitiva. All’opposto, la compressione di un ruolo presunto inevitabile, come quello politico-burocratico, non è stata affatto digerita.

Non c’è da meravigliarsi se nelle università – conquistate, occupate e non a caso ridotte a organismi istituzionali che assomigliano sempre più a caserme – dallo stato moderno nel corso della sua massiccia evoluzione da schiacciasassi, simili teorie non potessero trovare spazio, a vantaggio di invece di dottrine come quella keynesiana, che ha posto al suo centro il ruolo dello Stato e che frutta laute rendite politiche  (sottratte allo sviluppo economico) a coloro che lo impersonano, in carne e ossa appunto. L’interventismo politico nell’economia è attraente per coloro che, trasformatisi in “burocrati della scienza”, hanno l’impressione di partecipare, in virtù della loro presunta “conoscenza superiore”, legittimata a dirigere tutto, all’azione politica e redistributiva di un sistema gerarchico-piramidale che impone presunti “fini collettivi” a quelli individuali.

Il fatto è che il potere politico non è qualcosa di statico, ma tende a debordare e a invadere qualsiasi campo gli si presenti, finché non incontri limiti. Il risultato sarà allora il dilagare, legittimato da intellettuali di corte, di un potere politico-burocratico riverito come l’incarnazione di un destino storico e del “bene supremo”, che si nutre dei presupposti culturali, coltivati proprio nelle università (come è stato evidente nel Novecento), del nazionalismo (politico ed “economico”), dello statalismo come fede nell’onnipotenza del governo e che sfocia nella soppressione del pluralismo, dei dissenzienti e della discussione critica.

In tal modo però si finisce per attribuire al più forte, in quanto incarnazione di scopi superiori, ogni diritto, incluso quello di servirsi della violenza per attuarli. Ne deriva così un mondo aggressivo, fondato su una guerra civile permanente anche all’interno degli Stati, in cui i gruppi più vicini al potere politico sono i favoriti, a discapito delle categorie sociali più deboli.

Quando tutto dipende da chi detiene il potere, tenderà a dilagare anche una lotta senza quartiere per influenzare chi comanda, con un colossale spreco di energie e di risorse. L’unica legittimazione del potere che si afferma è quella che si fonda sulla violenza, sulla sua capacità di esercitarla e sul diritto del più forte (o di conquista). Pensando al mondo contemporaneo, è la realtà stessa a dimostrare quale grave vuoto conoscitivo abbia provocato l’emarginazione di teorie come quelle degli “austriaci”.

Aggiornato il 04 giugno 2024 alle ore 10:49